Ancora oggi è lecito domandarsi la ragione profonda e irrimediabile di una rottura di visioni, intenti e sintonia umana. Quella che si consuma tra Jeff Lynne e Roy Wood – inglesi di Birmingham – in un 1972 il cui scenario vede una lunga serie di grandi gruppi contendersi le luci della ribalta, tra entità nascenti o in procinto di assestare i grandi colpi che contribuiranno a formare il quadro irripetibile della musica rock dei seventies. Gli intenti fino ad allora sono quantomai chiari e comuni, enunciati letteralmente dallo stesso Wood nell’eloquente adagio “raccogliere il testimone lasciato dai Beatles” portandoli in una direzione non ancora sperimentata fino in fondo dai quattro di Liverpool. Insieme allo storico batterista Bev Bevan si pensa a mini ensemble d’archi, ottoni e sezione fiati per esplorare un gusto classico connesso a quell’eredità.
Una staffetta in piena regola, quasi fisica, perché i Beatles hanno appena lasciato mentre a sua volta l’intento dei due prende corpo con la successione tra l’esperienza dei The Move e il battesimo della Electric Light Orchestra (ELO) per dare anima e sostanza all’esperimento sognato da Wood. L’anno di grazia 1971, rispettivamente in ottobre e dicembre, vede un album a nome di entrambe le entità. “Message from The Country” di The Move e l’eponimo della nuova creatura ELO vengono registrati quasi in contemporanea e completano il passaggio del testimone svelando gemellaggi sonori tra la title track del primo disco e la celebre 10538 Overture, brano introduttivo dell’esordio dell’orchestra. Quello che loro stessi chiamano Baroque’n’roll prende forma. Lynne ne rappresenta l’anima più classicamente melodica devota a McCartney e con uno sguardo attento al nascente art rock, Wood quella più dura e psichedelica, non solo lennoniana ma anche fortemente legata alle staffilate sonore di Yardbirds e The Who.
Ma l’avventura tra i due finisce di lì a poco. Divergenze insanabili fanno consumare il divorzio proprio a seguito di un disastroso show in Italia, paese che ironicamente non verrà mai visitato dai successivi tour della Electric Light Orchestra. Non sapremo mai cosa avrebbe potuto ancora produrre quel sodalizio, Wood rimane perlopiù defilato dalle scene che contano, quello che sappiamo è che Lynne diviene a pieno titolo uno dei maggiori se non il maggiore beatlesiano d’assalto della prima ora. Di più, rappresenta forse il punto più alto di un’ipotesi artistica che si forma sulle spoglie del McCartney degli ultimi Beatles e di certa confetteria pop inaugurata da My Love. La classica Liverpool-Birmingham diventa una forte realtà anche sotto il profilo musicale. Nel cuore delle West Midlands viene stilata la prima grande checklist del Beatles-pensiero post Beatles.
Tutto questo si riflette nell’evoluzione artistica dell’ELO con un’accentuazione dell’elemento art- rock che via via si ridefinisce e si differenzia grazie al sodalizio, tuttora perdurante, con Richard Tandy, tastierista autentico braccio destro di Lynne che al pianismo r’n’r-blues affianca la passione per le visioni colte di Tony Banks. Insieme a Bevan, saldo dietro i tamburi e con l’ingresso dello strepitoso vocalist di rinforzo nonché bassista Kelly Groucutt, il gruppo prende la sua forma definitiva. Arrivano album di alto profilo in serie da “Eldorado” a “Face the Music”, da “A New World Record” alla pietra miliare “Out of The Blue” (Turn to Stone, Sweet Talkin’Woman e i capolavori Mr. Blue Sky, Big Wheels e Steppin Out si trovano tutti su questo disco) che sul declinare del 1977 funge da autentico collettore di una forma pregiata di canzone pop-rock contaminata di figurazioni sinfoniche e dosati riferimenti progressive. Anche il quartetto d’archi rock assume la sua configurazione definitiva per quanto sempre più addizionato in studio dal plenum orchestrale di Louis Clark. “Discovery” (1979) non fa che confermare la tendenza e, talora con un sentore pop-disco molto radio-oriented, diventa un altro contenitore di grandi hits.
Il talento di Lynne, estroso saggista della melodia, spinge l’avventura della band non oltre la metà degli anni ’80. In fondo è mentore, front-man, comandante in capo del progetto e non ha mai particolarmente amato – a differenza di Bevan – andare in tour. Costui ci andrà con gli altri (i controversi ELO part II), Tandy starà nel mezzo rimanendo sempre fedele a Lynne, pronto a riprendere l’avventura ogni qualvolta richiesto.
Il Lynne di questo periodo adora ricoprire il ruolo music-maker. Produzione, suoni e arrangiamenti di suo pugno sono determinanti nella rivitalizzazione di George Harrison, dell’ultimo Orbison e della spumeggiante seconda maniera del Tom Petty di Full Moon Fever, fino al ruolo di regista di lusso ricoperto nella breve e fulminante esperienza dei Traveling Wilburys dove Mr. ELO guida i suddetti e Bob Dylan in un vero e proprio supergruppo di una conclamata era post-rock ‘n’roll. Colori e armonie vocali di pura marca lynniana danno linfa ed estro al progetto, al contempo il nostro sembra trarre nuovi spunti dal coinvolgimento con questi mostri sacri di diversa estrazione.
E con un po ’di pazienza sarà così. Con l’ELO ridotta a duo – Lynne e il fido scrutatore d’intenzioni sonore Tandy – un primo tentativo di rientro prende corpo nel 2001 con “Zoom”, album dignitoso con un paio di ottimi brani e il peccato originale di un ritorno a tentoni agli allettamenti orchestrali. Questo secondo ritorno è testato da un concerto tenuto all’Hyde Park nel 2014 (e finito su un bel Blu-Ray/DVD uscito lo scorso settembre). Il nuovo parto del grande pensatore del songwriting è “Alone in The Universe”. La denominazione classica Electric Light Orchestra viene rimpiazzata dalla dizione Jeff Lynne’s ELO, un Lynne autarchico si occupa oltre che dell’amata chitarra anche degli altri strumenti con appena un paio di contributi esterni tra i quali i cori della figlia Laura.
Il disco scorre secondo gli intenti di un lavoro dal taglio più artigianale e asciutto che in passato almeno quanto alla veste sonora, quasi un modo di porsi mutuato dal supergruppo. Cosa evidente sin dall’apertura. When I Was Boy, primo singolo e video di presentazione del lavoro, è una sintesi di storia personale, sogni e svolte del musicista, quasi un rinnovo delle promesse con la forma d’arte abbracciata su una melodia dal sentore nostalgico che si rifà alla dimensione più raccolta di “Armchair Theater” che ai fasti dell’ELO. Ma Lynne è emblema di talento e mestiere scaltro e consumato nel gestire i tempi del rientro dalla finestra di lusinghe e malizie del gruppo madre. Love and Rain riporta in auge l’andamento locomotorio della classica Showdowngestendone con abilità le insidie tra cori soul e frasi morbide di chitarra mentre Dirty to The Bone mette la godibilità delle pure armonie vocali al servizio di una ballata elettrica in stile Wilburys. Cosa che fa la differenza anche inWhen The Night Comes, altro mid vivace dove i vecchi archi fanno capolino in forma sospirata e quasi impalpabile.
Pregio da non sottovalutare, Lynne si avvale dell’econometro. Non più di trentatré minuti scarsi per dieci canzoni (escluse le due bonus tracks) scongiurando ogni possibilità di tempi morti. Così una sezione centrale meno creativa che assomma cose dignitose come The Sun Will Shine on You e All My Life ad altre più mosse o rifinite come Ain’t It a Drag e I’m Leaving You, gioca da indugio e rincorsa verso un finale che alza il tiro e fa storia a sé. One Step at a Time con il suo mid-tempo sostenuto che vola alto tra magie corali, responsi di elettrica e linee soliste riesumando l’antico “feelgood” marziale del gruppo. E’ qui che la scrittura di Lynne oggi come ieri si ricompatta guizzando sul pentagramma in maniera leggiadra e clamorosa. Alone in The Universe a chiudere il cerchio aperto dal brano iniziale soggiungendo con piglio solenne, al di là di ogni apparente fatalismo, che senza qualcuno per cui spendere e rischiare la vita, si va avanti sperduti. In questo buon disco è Lynne stesso che filtrando nuove e e vecchie esperienze, ha l’abilità di tenerci presenti alla vita nella direzione della promessa.