Qualche sera fa sono stato a Milano a sentire Paolo Benvegnù, nell’angusto spazio del Biko. Era una delle ultime date del giro di “Earth Hotel”, il disco che più o meno di questo periodo, un anno fa, cominciavo seriamente a considerare uno dei più bei lavori usciti nel 2014. 

Dopo l’evento della reunion con gli Scisma di un paio di mesi fa, queste sono le ultime esibizioni prima di rifugiarsi nella quiete di Città di Castello (dove l’artista, originario di Milano, risiede da più di vent’anni) per cominciare a lavorare al nuovo disco solista. 



Andare a vedere un concerto dopo quello che è successo il 13 novembre potrebbe sembrare rischioso, o casomai contraddittorio, in un periodo in cui pare che ci sia gente che vuole fare di tutto per impedirci di vivere normalmente. 

I Foo Fighters hanno avvertito la contraddizione di ciò che sta accadendo e hanno deciso di interrompere il tour, per il momento. I Simple Minds, probabilmente per le stesse ragioni, si sono esibiti a Parigi esattamente una settimana dopo degli attentati. Due opposti comportamenti, entrambi a mio giudizio da guardare con positività e non da giudicare con saccenteria. 



Io personalmente ho scelto la vita, non la paura. E al di là di ogni calcolo sulle probabilità di rimanere coinvolti in un fatto del genere, rimane da dire che andare ad un concerto in un momento come questo risulta comunque un grande gesto liberatorio. 

A maggior ragione se si tratta di un concerto di Paolo Benvegnù, uno che nella sua musica ha sempre espresso di più di quello che si può leggere in superficie. 

Innanzitutto si tratta di un artista autentico. Nel senso che negli anni ha saputo trovare quell’equilibrio tra la propria dimensione umana e quella di uomo di spettacolo, di personaggio pubblico. Un equilibrio che forse nel suo caso è più facile, visto che non muove folle oceaniche, ma che comunque non si può mai dare per scontato. 



Non canta per esibirsi quindi, canta perché ne ha bisogno. È il suo lavoro, certo, ma lo fa perché ha bisogno di farlo, non perché vuole guadagnarci dei soldi (anche perché, per lo status che ha, di soldi ne vede pochini). 

E di questo te ne accorgi anche e soprattutto quando lo vai a salutare dopo il concerto. Non sono fans, quelli con cui si intrattiene, ma persone che da anni lo seguono, che lo hanno conosciuto e che sono in un certo senso suoi amici, anche se magari non lo riescono a vedere così spesso. Sono dialoghi veri, quelli che avvengono dopo il concerto. Dialoghi in cui si parla di tutto, in cui lui non si limita a ricevere complimenti ma sta realmente di fronte a tutti quelli che si trova davanti. Un uomo che incontra altri uomini, dunque, sembra non esserci nient’altro che questo. 

Questa sera l’atmosfera è tranquilla, il locale non è il massimo perché il sound a più dimensioni della sua band si possa avvertire in tutte le sue sfumature. In più, Paolo è stanco e si vede, alcune cose escono meno energiche del solito ma si può dire che il fascino del concerto rimanga immutato, anche grazie ad una scaletta ormai rodata e ricca di brani bellissimi, dal potenziale immenso. 

La dipartita di Guglielmo Ridolfo Gagliano alla chitarra è stata paradossalmente positiva: Andrea Franchi è passato dalla batteria alla sei corde e ha dato un’impronta del tutto nuova, rendendo il sound più sofisticato e in qualche modo meno monolitico, portando l’apporto del grande musicista che è. 

Tutto questo fa bene, ovviamente. Ma questa sera, forse anche perché era l’ennesima volta che vedevo questo set, che ascoltavo queste canzoni, sono restato tutto assorto e mi sono concentrato su quello che questi brani volevano comunicare. 

E allora mi è parso significativo, quasi un segnale nascosto, che il tutto iniziasse con “Orlando”, che è forse il punto più alto di una riflessione sull’amore che è partita da lontano, dal primo disco “Piccoli fragilissimi film” e che è diventata pian piano più matura man mano che gli anni passavano. 

In quel primo lavoro solista, in cui si è riappropriato delle straordinarie doti da compositore che aveva fino ad ora diviso coi suoi compagni d’avventura negli Scisma, c’è spazio per una contemplazione stilnovista in cui la donna è guardata da lontano, come un miracolo in terra, tanto affascinante quanto paralizzante, ma di cui non si riesce ad avvertire il senso. In “Quando passa lei” (anche questa ben presente nella scaletta di stasera) osserva che “Tutto si trasforma, si attenuano i rumori, le macchine diventano cristalli quando passa lei”. Ma tutto questo non tiene. Tutto questo è forse troppo grande per essere afferrato e allora arriva quel “Io non so perché la uccido”, come amaro e quasi surreale commiato a tutte le strofe. 

È quella stessa impossibilità ad afferrare un qualcosa di totalmente “altro” che domina il brano simbolo di questo lavoro, “Il mare verticale”, che negli anni non ha perso nulla del suo struggente fascino. “Io lascio che le cose passino e mi sfiorino perché non sono ancora in grado di comprenderle”. Appunto. Se c’è un mare, sembra dire, è verticale, non ci si può immergere dentro, non ci si possono cercare tesori nascosti. 

Ma in “Orlando” è diverso. Qui, dopo un disco, “Hermann”, in cui esplorava le miserie e le altezze dell’essere umano, arrivando alla fine quasi a dire che il bello e il mistero di cui siamo fatti sta proprio nella compresenza di queste due dimensioni, in “Earth Hotel” ha deciso di fare i conti con il mistero insondabile dell’amore. 

E in questo brano così suggestivo, che si riallaccia di diritto alla grande tradizione cantautorale degli anni ’70, arriva a dire che “È un nuovo giorno, il giorno in cui avrò cura di te e se vorrai svegliarti vedremo il sole sorgere e la notte cadere giù dalle autostrade. E non chiedermi nulla, perché non saprei rispondere. Perché tutto è un mistero da non rivelare, perché tutto ci parla, senza farsi vedere, così tutto mi parla di te, e i tuoi fiori mi abbracciano, le tue labbra si schiudono. Così tutto mi parla di te”. 

Ma non è stata un’epifania improvvisa. Quando ha attaccato “Nel silenzio”, che fa parte dell’ep “21” ed è un pezzo che ha iniziato a riprendere quest’estate, dopo che per alcuni anni lo aveva trascurato, ho capito che fa tutto parte di un unico, affascinante viaggio. 

“Non vedi che ti attendo, ti proteggerò restando lontano, nel silenzio. Non vedi che mi arrendo, non capisci che lasciandoti andare, potrai desiderare, riconquistarti e perderti”. Ovvero, la consapevolezza che, a volte, per amare davvero occorre fare un passo indietro, lasciar andare. Una canzone che, come mi ha detto a fine concerto “mi rimescola lo stomaco ogni volta che la canto, ma che ho ripreso a fare per tutta una serie di motivi”. 

Già, di qualsiasi motivo si tratti, è evidente che le canzoni di questa sera, viste alla luce di quanto è successo due settimane fa, ci hanno in qualche modo indicato una strada. Niente risposte, niente soluzioni, niente istruzioni per l’uso. 

Semplicemente, la consapevolezza che la vita è una cosa meravigliosa, che l’uomo è, nel bene e nel male, un essere misterioso e quindi meraviglioso. E che l’amore, questa cosa di cui parliamo tutti ma che in fondo in fondo nessuno capisce, è forse una possibilità che è data per guardare quello che sta succedendo con l’idea che non rappresenta la fine di tutto. 

Poi, proprio mentre mi stavo un po’ cullando in questa intuizione, arrivano i bis e inizia “Sempiterni sguardi e primati”, che è il pezzo conclusivo di “Earth Hotel” e che è uno di quei brani che, per un motivo o per l’altro, ho sempre apprezzato un po’ a distanza, quasi distratto, senza avere mai avuto davvero la possibilità di metabolizzarlo a dovere. 

Stasera è diverso: forse perché le cose, complice la stanchezza e il caldo del locale, appaiono più leggere e come sfuocate, capita che mi soffermi di più sulle parole. E verso la fine, arriva quel break meraviglioso in cui gli strumenti tacciono e Paolo e il bassista Luca Baldini cantano quasi a cappella: “È la fine del mondo e ti vengo a cercare. Ora possiamo finalmente restare in silenzio a guardarci negli occhi, a tenerci per mano, dove siamo. Qui c’è un sole bellissimo e avevi ragione tu, non c’è niente in fondo alle cose, non c’è niente. Soltanto disperazione, fuga, incantesimo e mistero. Eppure è tutto vero, anche se non c’è niente. Eppure è tutto vero”. 

Si può dire che niente ha significato, si può dire che in fondo alla realtà non c’è nulla, si può affermare, come Montale in una celebre poesia, di vedere il nulla dietro le proprie spalle. Ma non si può negare che le cose ci sono, che il mondo c’è, che la realtà c’è. Dopo aver cantato dell’altezza e della miseria, dopo aver cercato di interrogarsi su che cosa permetta all’uomo di rendere sacro ciò che ama ma anche di distruggerlo senza pietà, ecco che si arriva a dire che forse la questione può essere anche più semplice. Le cose ci sono, il mondo è bello. Lasciarsi stupire da questa bellezza, viverla in pieno, non permettere di darla vinta a qualcuno che pretende di negarla, di farla a pezzi sotto i nostri occhi. 

Non è una risposta, non potrà mai esserlo. È però, in qualche misterioso e fragile modo, la possibilità di ripartire. Di ripartire anche da una cosa semplice, come un concerto rock. Quella stessa cosa semplice per cui dei ragazzi come me sono morti, due settimane fa. Ma d’altronde la musica non avrebbe senso, se non si potesse intravedere fugacemente, nelle canzoni che amiamo, un qualche squarcio improvviso del mistero per cui vale la pena vivere. Per questo c’è da ringraziare Paolo Benvegnù. Perché è un’anima bella, e questo mistero ogni tanto riesce a farcelo vedere.