Il mito di Orfeo ed Euridice è uno dei più antichi della storia della poesia e della musica. Per molti aspetti, il teatro d’opera nasce con L’Euridice di Ottavio Rinuccini del 1600 di cui ben poco è rimasto. Tuttavia, da La Favola di Orfeo di Claudio Monteverdi (ancora spesso in scena) all’Orfeide di Gian Francesco Malipiero nel Novecento ‘storico’ all’Orphée nègre di Marcel Camus, con musiche di vari autori brasiliani, del 1960 (per non citare esempi più recenti)  si può dire che l’amore eterno (oltre la morte) di Orfeo ed Euridice è la quintessenza stessa del teatro in musica. 



Delle varie versioni, la “tragedia” in musica su Orfeo ed Euridice di Christoph W. Gluck è una delle poche opere del Settecento rimaste nei cartelloni nei secoli successivi. Nell’Ottocento la si è messa in scena nell’adattamento (ai gusti dell’epoca) fattone nel 1859 da Hector Berlioz. Nel Novecento nella versione edita nel 1889 da Ricordi che interpolava l’adattamento di Berlioz con le due versioni originali di Gluck (una del 1762, in italiano, per Vienna ed una del 1774, in francese, per Parigi) , nonché con arie di altre opere del compositore boemo. Alcuni anni fa, ha girato per mezza Italia un allestimento fedele alla edizione con cui nel 1762 Gluck effettuò una vera e propria riforma fondendo tutti i mezzi espressivi (parola, musica, danza, mimo) al servizio della verità scenica. Sempre la versione 1762 è stata presentata allo scorso Maggio Musicale Fiorentino nella bella regia di Denis Krief che si potrà gustare al Verdi di Trieste a partire dal 5 marzo.



La versione francese del 1774 in un adattamento (non filologico) dell’Opéra National di Monptellier si è vista ed ascoltata a Bologna nel gennaio 2008. Le differenze (rispetto alla versione viennese) sono molteplici: Gluck ampliò l’orchestrazione, aggiunse arie e soprattutto riscrisse il ruolo del protagonista – un castrato a Vienna ed un tenore dalla tessitura ampia (dal sol al re acuto), ma prevalentemente alta, a Parigi. Purtroppo  il tenore Roberto Alagna è affiancato dai propri fratelli (David, regia e Frédéric scene) hanno interpolato in modo tale libretto e partitura che quella messa in scena è da dimenticare.



Queste note possono sembrare di filologia musicale. Tuttavia, spiegano l’interesse per la produzione in scena al Teatro Massimo di Palermo. Riguarda la messa in scena (a mia memoria per la prima volta in Italia) della versione curata nel 1859 da Hector Berlioz per il Théâtre Lyrique di Parigi.

Il lavoro veniva adattato l’opera al romanticismo del Secondo Impero , prendendo non solo le due partiture precedenti ma anche altri lavori di Gluck, modificando la scrittura orchestrale per un più vasto organico , ponendo un coro più ampio (e ponendolo in buca) e dando un ancora maggior ruolo al balletto (si era all’epoca del grand opéra. La produzione nasce da una joint venture tra  Marsiglia e St. Etienne. Il primo è molto forte nelle arti coreutiche e, quindi, la danza ha un ruolo dominante. 

Non solo ogni personaggio è impersonato non solo da un cantante ma anche un ballerino (Orfeo da due per tenere conto della sua complessa personalità; da un lato, dolce ed introverso e da un altro, pronto a sfidare anche l’oltretomba), ma il coro è in buca mentre sul palcoscenico ballerini e ballerine danno corpo alla popolazione di questo e dell’altro mondo. Cosi come Berlioz ( e quasi contemporaneamente Offenbach) portò l’azione nel Secondo Impero,  il  regista e coreografo Frédéric Flamand e lo  scenografo e  costumistai Hans Op de Beek,  la situaziono in una periferia di una grande città ai giorni d’oggi, ossia una banlieue. I Campi Elisi, però, sono un bel e ridente boschetto. In effetti, l’attualizzazione dei miti e dei libretti d’opera è ormai prassi.

Non credo sia il caso di fare una gara tra le tre stesure. Occorre dire che John Eliot Gardiner preferisce alle altre la versione Berlioz e ne ha inciso una registrazione mitica con Anne Sofie von Otter , Barbara Hendrick e Brigette Fournier. Il vostro chromiqueur è particolarmente affezionato alla tersa stesura del 1762, per il suo carattere realmente rivoluzionario nel teatro musicale. Si deve però riconoscere la ‘versione  Berlioz’ come una svolta nel romanticismo musicale francese.

I quattro atti (per complessivi 110 minuti) vengono presentati senza soluzione di continuità. In un’atmosfera dove dominano, il bianco, il grigio, il verde e l’azzurro, Marianna Pizzolato è un efficace Orfeo dal volume potente , Mariangela Sicilia una dolce Euridice ed Aurora Fagiolo un delicato Amore. Di grandissimo livello i soliti ed  il corpo di  ballo. La concertazione di Giuseppe Grazioli, però,  non coglie a pieno l’impeto di Berlioz. Ottima prova, invece, del coro guidato da Piero Monti.