“Ho intenzione di andarmene da qui, mi metterò un uovo nella scarpa e lo schiaccerò (idioma americano per: immaginate quanto me ne frega, nda). Speriamo di incontrarci di nuovo e capiterà se, come diceva Hank Williams, il buon Dio lo vorrà e il fiume non strariperà”. A 73 anni Bob Dylan è ancora il punk che ha cambiato la storia della musica del novecento. A 73 anni, soprattutto, Bob Dylan ha finalmente tirato fuori in pubblico tutti i sassolini – o le uova – che si portava nelle scarpe da decenni.



Lo ha fatto con un discorso lungo ben 40 minuti – lui che sul palco dice a malapena grazie – davanti a una folla adorante di vip, colleghi star, dirigenti dell’industria discografica e dello spettacolo (tra i tanti anche personaggi come Jeff Bridges e Lady Gaga) al termine della cerimonia in cui gli è stato assegnato l’annuale premio MusiCares, un riconoscimento ambitissimo del mondo musicale da parte di una associazione benefica che si occupa di sostenere musicisti finiti in disgrazia. La serata del 7 febbraio ha aperto anche il weekend dei Grammy Award, i premi dell’industria musicale, in cui questa cerimonia era inserita.



Prima del suo discorso, si erano esibiti nomi di livello mondiale quali Bruce Springsteen, Neil Young, Beck, Sheryl Crow, Jackson Browne, Alanis Morissette, Crosby Stills Nash e altri ancora, ognuno con una canzone del repertorio di Dylan che lui stesso ha scelto per loro (Springsteen ad esempio con Knockin’ on Heaven’s Door).

Poi è salito sul palco, dove il premio glielo ha consegnato non una persona qualunque, ma un ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, il che significa evidentemente l’ importanza che Dylan ha nella storia americana quale non ha nessun altro musicista rock.

Ed è partito con il suo discorso. Toccante, divertente, ma soprattutto cattivissimo. Ha cominciato ringraziando chi, a inizio carriera, aveva inciso le sue canzoni facendole diventare dei successi di classifica, cosa che lui non riusciva a fare. Gente come Peter, Paul and Mary, Cher, i Byrds e soprattutto Joan Baez, sua ex amante per la quale ha avuto parole estremamente tenere: “Lei era la regina della musica popolare, allora come oggi. Ha preso in simpatia le mie canzoni e mi ha portato con sé a fare concerti, dove folle di migliaia di persone erano lì per lei affascinati dalla sua bellezza e voce, facendomi anche cantare con lei”. Non male come dichiarazione di riconoscenza per tutti coloro che nei decenni hanno detto che Dylan ha solo usato la Baez per costruirsi una carriera e poi l’ha scaricata malamente. E’ stato solo l’inizio di una serie di bombe, con le quali Dylan dopo anni e anni di silenzio ha voluto finalmente dire la sua. Ha riscritto la storia, quella manipolata da fan superficiali e critici prezzolati e collusi, e così facendo non solo ha detto la sua, ma ha dato l’ennesima testimonianza di integrità e di dedizione alla musa che lo ha sempre caratterizzato.



Tra i ringraziati anche Jimi Hendrix, di cui ha detto di desiderare fosse vivo e presente in quella serata: “Ha preso alcune mie piccole canzoni, a cui nessuno prestava attenzione, e le ha portate ai limiti esterni della stratosfera, trasformandole in classici. Devo ringraziare Jimi. Vorrei che fosse qui”.

Non ha ringraziato invece autori di classici del rock’n’roll come Lieber e Stoller ad esempio, autori di tantissime hit di Elvis fra gli altri, e così facendo ha fatto capire quanta e quale sia stata l’importanza del suo scrivere canzoni: “Yakety yak, Don’t talk back. Charlie Brown is a clown, Baby, I’m a hog for you (di Lieber and Stoller, nda) sono canzoncine da classifica. Ma le canzoni di Doc Pomus (altro autore di brani di successo contemporaneo dei primi due, nda) erano meglio: This Magic Moment. Lonely Avenue. Save the Last Dance for Me, quelle canzoni mi hanno spezzato il cuore. A Lieber e Stoller non piacevo, ma ho sempre pensato che avrei preferito essere benedetto da Doc Pomus piuttosto che da loro”. E’ stata la prima bordata della serata. Ma il meglio è venuto dopo. Senza neanche pronunciarne il nome  – evidentemente ha pensato non meritasse pubblicità – ha definito in modo esilarante e brillante tutta la patetica finta magniloquenza delle cantanti da talent che infestano il mondo della musica odierna: “I critici dicono che stritolo le mie melodie, rendo le mie canzoni irriconoscibili. Lasciate che vi dica una cosa. Ero a un incontro di boxe pochi anni fa, Floyd Mayweather contro un ragazzo portoricano. Qualcuno ha cantato l’inno nazionale portoricano, ed era bello, era sincero, era toccante. Dopo di che, era giunto il momento per il nostro inno nazionale, e una ‘soul sister’ molto popolare era stata scelta per cantarlo. Ha cantato ogni nota che esista e anche alcune che non esistono. Ecco cosa vuol dire manipolare e massacrare una melodia. Prendete un parola, una sola sillaba e fatela durare per 15 minuti. Per me, non è stato divertente. Storpiare i testi, schiacciare una melodia, schiacciare una canzone preziosa. E invece sarei io quello che fa così”. Ne ha avute per i detrattori del suo modo di cantare, Bob Dylan, nel corso della serata, ma soprattutto ha ristabilito il vero significato del canto, che non è gettare saccarina finto erotica in voci sguaiate e urlatrici (stile scuola di Amici per intendersi) per  dare finte emozioni.

 

 

Ha dato anche una lezione di storia della canzone d’autore, spiegando come sono nati i suoi capolavori e anche una lezione di umiltà: “Le mie canzoni non sono venute dal nulla. Ad esempio, It’s alright ma (I’m only bleedin’) è stata scritta ispirandomi alla canzone di Johnny Cash Five Feet High and Rising e, in particolare, il distico “How high’s the water, Mama?” ce lo avevo ben dentro il cervello. Se hai cantato la canzone folk classica tante volte, tipo John Henry come ho fatto io, ecco che avresti scritto Blowin’ in the Wind”. 

Ha anche citato Key to the Highway di Big Bill Broonzy come l’ispirazione per Highway 61, il canto dei tempi della guerra di secessione Roll the Cotton Down, come ispirazione di Maggie’s farm e Pretty Boy Floyddi Woody Guthrie  come l’ispirazione per The Times They Are a-Changin. Be’, quanti libri scritti per interpretare le canzoni di Dylan, e che lezione per tutti quelli che hanno l’ambizione di scriverne: “Succede in modo subliminale e inconsciamente: è l’unico modo che ha un senso. Tutte queste canzoni sono collegate, non fatevi ingannare. Ho solo aperto una porta differente e in modo diverso. Non mi sembrava fuori dal comune per me. Ma sin dall’inizio le mie canzoni hanno creato divisioni … l’ultima cosa che mi interessava è cosa pensasse la gente volessero dire le mie canzoni. Stavo semplicemente scrivendo. Non pensavo che stavo facendo nulla di diverso se non di allargare ed estendere il percorso delle canzoni”.

 

Il bello è arrivato alla fine. “I critici dicono che non posso cantare, che canto come una rana”, ha osservato, inarcando le sopracciglia. “Perché i critici non dicono la stessa cosa di Tom Waits? Dicono che non ho dizione e sommergo le parole. Perché non dicono così di  Leonard Cohen? Che cosa ho meritato per ottenere questa particolare attenzione? I critici dicono che farfuglio le mie parole e non ho dizione … che borbotto e rendo le mie canzoni non ascoltabile. Oh. Davvero?”. Ha quindi citato di nuovo le stelline di Mtv (Ha fatto il nome di Michael Bublè) e dei talent che fanno ginnastica vocale: “Dove sono i critici quando questi cantanti storpiano la melodia di canzoni preziose, è ancora mia la colpa? Sam Cooke diceva che le voci della musica devono dire la verità: pensateci”. E se n’è andato sbattendo la porta.

Una apparizione apocalittica e furiosa, proprio come i suoi concerti, per dire una sola cosa: la canzone o è voce della verità o è inutile. O è apertura al mistero o è solo rumore, anzi è solo talent show. Talento inutile e menzognero. Ecco perché Bob Dylan, a 73 anni, ha confermato di essere più prezioso e importante che mai. Anche più di un presidente degli Stati Uniti.