Sono stato un metallaro per un sacco di tempo. Praticamente tutta la mia giovinezza è trascorsa ascoltando questo tipo di musica, salvo sporadiche incursioni nel mondo del pop rock o del cantautorato italiano. Non rinnego il mio passato ma oggi, ogni tanto, avverto la fastidiosa sensazione di avere buttato via del tempo. 



Gli anni del liceo, quelli dell’università, quando si ha un sacco di tempo da buttare, quando davvero ci si può mettere in poltrona per ore ascoltando un disco e studiandone spasmodicamente i testi dal booklet, io li ho passati in compagnia di Iron Maiden, Metallica, Megadeth, Blind Guardian, Gamma Ray e milioni di altri. 



Davvero, ogni tanto ci penso. Avrei potuto impararmi a memoria tutto Bob Dylan, sviscerare i testi di Morrissey, addirittura (ma su questo ho seri dubbi) decifrare i mormorii indistinti del primissimo Michael Stipe. Quelle cose le ho scoperte dopo, per certi versi fuori tempo massimo. Certi artisti li amo alla follia ma non sono marchiati a fuoco dentro di me, tranne rare eccezioni. 

Non è stata una cosa del tutto negativa: certe cose non le avrei mai conosciute in età adulta e il fatto di avere consumato famelico tutta questa musica mi ha dato una certa apertura di orizzonte che forse non tutti hanno. 



Ma sono solo magre giustificazioni, mi dico anche. Il treno l’ho perso per sempre, c’è poco da fare. 

Tutto questo discorso, per dire che il Metal non è un genere che vada particolarmente d’accordo con la vita adulta. Esistono eccezioni, ovviamente e io stesso seguo ancora qualche artista, vado a vedere qualche concerto e mi riascolto saltuariamente qualche vecchio disco. Solo le cose più sperimentali e meno stereotipate, però. 

Perché per il resto, la verità è che c’è troppa chiusura, troppa autoreferenzialità; le idee sono sempre quelle, un po’ perché i fan vogliono una formula che cambi il meno possibile, un po’ perché la ristrettezza di vedute degli stessi fa sì che chi cambia venga accusato di essere un traditore. Che sono poi due lati dello stesso problema, alla fin fine. 

Perché il Metal, in tutti i suoi generi e sotto generi, è limitato, punto e basta. La qualità è scaduta da anni, i grandi nomi sono bolliti, di cose nuove ne escono una marea come del resto da altre parti ma, per quel che ne so, non ho ancora sentito nessun recensore gridare al miracolo dietro a una band dell’ultima generazione. 

E quindi le aspettative calano, i dischi da 8 e da 9 in pagella avrebbero a stento racimolato un 6 se fossero usciti vent’anni prima, e via andare. 

È così dappertutto? Qualcuno dice di sì ma io ne dubito fortemente. Il problema è che nel mondo del rock (nel senso più lato possibile) le contaminazioni sono sempre state di casa e anzi, dalla fine del punk in avanti ce ne sono forse state un po’ troppe. Saranno anche scomparsi i generi, come affermato in un articolo su Rumore di dicembre, ma di sicuro questo non ha significato appiattimento. 

Una cosa accomuna però l’universo metallico al resto del mondo: le ristampe. Ebbene sì, in un mondo in cui i nativi digitali non sanno più cosa sia un cd, in un mondo in cui il vinile rinasce ma  ha tutta l’aria di essere ormai solo un oggetto feticistico, chi compra i dischi regolarmente sembrano solo essere quelli dalla mia generazione in su. I quali però non sempre hanno voglia di star dietro alle nuove leve e desiderano sicurezze ben collaudate. 

I Judas Priest rientrano in pieno in questa categoria. La band viene Birmingham (se vi state chiedendo perché anche i Black Sabbath vengono da qui, potreste andare a farci un giro. Ma anche leggere i libri di Jonathan Coe potrebbe aiutare) ed è stata la prima ad inserire le due chitarre armonizzate che sarebbero poi state riprese dai Maiden, divenendo un marchio di fabbrica di un certo tipo di suono tipicamente Classic. 

Dotati di un singer carismatico e potente come Rob Halford, la cui voce acuta e tagliente è diventata modello imprescindibile per tutti i cantanti metal degli anni a venire, i Priest furono anche la primissima band a sperimentare i fraseggi di chitarra, grazie alla coppia Glen Tipton/KK Downing, responsabili di un altro importassimo marchio sonoro, vera e propria cifra stilistica di un intero genere (gli Iron Maiden e gli Helloween, giusto per citarne due a caso, ci hanno costruito sopra una carriera). 

Autori di dischi seminali come “Sad Wings of Destiny”, “Killing Machine” o “British Steel” (quest’ultimo dotato di una copertina che ha fatto epoca, quella con la lametta di rasoio griffata col logo della band), creatori della sacra triade “pelle, borchie e motocicletta”, i Judas Priest possono dunque essere considerati senza troppe esagerazioni e forzature, come il primo e il più importante gruppo metal della storia. 

A un certo punto sono arrivati anche gli Iron Maiden e per un certo periodo si è assistito alla versione heavy del celebre duello Beatles/Rolling Stones in voga negli anni ’60. In realtà di rivalità non ce n’era per nulla, per lo meno tra il pubblico: i metallari hanno sempre idolatrato tutti e due, nonostante poi l’attitudine e l’impatto sonoro fossero leggermente diversi (più classici e raffinati i Maiden, più iconici, “tamarri” e inclini alla velocità i Priest). 

Il sottoscritto ha sempre preferito la band di Bruce Dickinson e Steve Harris ma certi dischi della compagine di Birmingham era difficile non averli nel cuore. 

 

Oggi che la Sony ha egregiamente ristampato “Defenders of the Faith”, uno dei loro lavori più celebri, in una lussuosa confezione deluxe, lasciarsi andare all’onda dei ricordi sembra più facile che mai. 

Correva l’anno 1984, l’Heavy Metal era un genere di punta, in molti paesi era suonato nelle radio nazionali e i dischi finivano in classifica senza troppo penare. Rob Halford e soci erano attivi da poco meno di dieci anni e avevano già sfornato tutto quello per cui sarebbero stati ricordati da lì all’eternità, compreso il famigerato album dal vivo “Unleashed in the East”, che poi dal vivo non era  (come del resto anche la maggior parte delle cose che escono oggi, solo che all’epoca non si sapeva o non si voleva sapere).   

 

“Defenders of the Faith” seguì di due anni “Screaming for Vengeance”, altro lavoro seminale pieno zeppo di futuri classici. Erano in stato di grazia e il disco successivo, appunto, non tardò a confermarlo. 

Sulla sorta di mostro meccanico in copertina forse è meglio soprassedere ma non bisogna neppure dimenticare che quelli erano i tempi, quello era l’immaginario, quello era ciò che il pubblico voleva (dopotutto a casa nostra guardavamo cartoni animati provenienti dal Giappone nei quali c’era questo e altro). 

Anche il titolo sarà destinato a rimanere: quei “difensori della fede” qui evocati diventeranno, con gli anni, sinonimo dei metallari stessi, uniti nell’osannare e nel supportare tutto ciò che aderisce nella loro concezione ai dettami del “vero” Metal, e altrettanto zelanti nel condannare tutto ciò che secondo loro vi si discosterebbe. Un esercito di talebani del metallo? Non occorre esagerare, però è innegabile che, come dicevo all’inizio, il Defender per antonomasia sia responsabile allo stesso modo dell’ascesa e dell’attuale declino di questo genere musicale. 

 

“Defenders of the Faith” ci presenta comunque i Judas Priest al top della forma, alle prese con quella che, almeno per il sottoscritto, è la loro prova migliore. 

Si inizia con le rasoiate di “Freewheel Burning” e “Jawbreaker”, cavalcate compatte e affilatissime con le due chitarre sugli scudi e la voce di Rob Halford che taglia e squarcia come non mai. Se bussasse un alieno alla vostra porta e vi chiedesse che cos’è il Metal, fategli sentire questi due pezzi e mandatelo via. 

Questo è un disco dove i Priest hanno osato anche molto dal punto di vista melodico, cercando di costruire brani con cambi di tempo al loro interno e con un riffing maggiormente vario e dinamico: bordate Heavy sì, ma probabilmente più ricercate che in passato. Un brano come “The Sentinel”, nel suo evolversi continuo, è lì a dimostrarlo. E il modo in cui le due chitarre duellano tra loro, o le linee vocali epiche e vagamente operistiche, dicono di un’influenza Maideniana che in questo disco, se lo si ascolta bene, è più presente che mai. 

Anche quando rallenta, questa band è in grado di stupire: il mid tempo di “Love Bites”, al contempo rocciosa e scurissima, è da capogiro, oppure la cadenzata elegia di “When the Night Comes Down”, altra testimonianza di un songwriting di livello altissimo. 

Ci sono anche cose più vicine al classico Hard Rock americano e festaiolo, una dimensione di cui i Priest hanno sempre tenuto conto. “Rock Hard Ride Free”, col suo ritornello liberatorio, o ancora la nervosa e incalzante “Eat Me Alive”, sono episodi  meno classici ma sempre superlativi, che sono invecchiati più che brillantemente. 

Un album dalle diverse sfumature ma anche tremendamente compatto, con un suono potente e nello stesso tempo nitido, per nulla superato; un suono che la rimasterizzazione è riuscita a valorizzare in pieno. 

Niente bonus tracks, in questa nuova edizione, ma c’è comunque un bel motivo per acquistare anche da parte di chi possedesse già l’originale: sono infatti stati aggiunti due dischetti, contenenti un concerto completo di quel tour, registrato nel corso del 1984 alla celebre Long Beach Arena di Los Angeles (la stessa dove gli Iron Maiden immortalarono il loro storico “Live After Death). 

Di dischi dal vivo dei Judas Priest ne abbiamo a bizzeffe, per la verità. Non era però mai uscito un documento ufficiale di questo periodo, senz’altro il migliore della band britannica. Un’ottima occasione per andarsi a sentire brani che sono ormai stati esclusi dalle scalette dei nostri, come le varie “Desert Plains”, “Rock Hard Ride Free”, “Heavy Duty”, accanto ai classici di sempre come “Electric Eye”, “Grinder”, “Metal Gods” e le frizzantissime “Living After Midnight” e “You’ve Got Another Thing Comin'”, suonate come sempre nel finale. 

Se aggiungiamo che è registrato davvero molto bene, e che ha catturato tutta la potenza che questo gruppo era in grado di sprigionare, abbiamo detto davvero tutto. 

 

Un acquisto obbligatorio per tutti i giovani metallari, quelli che magari hanno conosciuto i Priest con gli ultimi, terribilmente scialbi dischi in studio. Ma anche i più anziani come il sottoscritto hanno dei bei motivi per spendere i loro soldi: se le ristampe, dicevamo, sono lo stratagemma escogitato dal mercato discografico per catturare le uniche generazioni che ancora utilizzano il supporto fisico, bisogna ammettere che in questo caso c’è più di un motivo per essere contenti. 

Per tutti gli altri, meglio passare oltre. Ma se foste per caso incuriositi e voleste capire meglio che cos’è questo benedetto Heavy Metal, “Defenders of the Faith” vi saprà dare risposte più che esaurienti…