“Stripped down” come dicono gli anglo americani, cioè ridurre all’essenziale, eliminare ogni accessorio di troppo. E’ l’operazione coraggiosa che ha tentato Francesco D’Acri (un disco di canzoni autografe all’attivo, “Che cosa sei”, uscito nel 2011) con questo disco che raccoglie sedici brani più o meno noti dal repertorio di grandi del rock come Springsteen, Dylan, Bob Seger, Joy Division e altri ancora, incisi quasi in solitudine. Un’operazione che sulla carta può essere scontata: l’hanno fatta in milioni. O che può essere puramente nostalgica e anche furbetta, sfruttare cioè i “soliti noti” per vendere facilmente. Operazione poi dal facile scivolone, perché nessuno saprà mai rendere perfettamente una lingua non sua.
In realtà D’Acri, che con l’inglese se la cava più che bene, va oltre: riscrive i brani prescelti, in alcuni casi in modo “decostruttivo”, scarnificando l’essenza della canzone, ribaltandola e dandole aspetti che erano probabilmente solo nella mente del suo autore o forse neanche, scovandoli e portandoli in primo piano. E’ la bellezza delle canzoni rock, di certe canzoni rock: avere al loro interno significati molteplici che sfuggono anche ai loro autori, come ammise una volta Bruce Springsteen. In questo senso D’Acri fa suo quais ogni brano qui presente, dimostrando di avere molte cose da comunicare di suo anche se le canzoni non sono scritte da lui.
Chi si intende un po’ di registrazioni, o ne ha letto al proposito anche senza aver mai inciso un brano, saprà che il modo con cui una canzone prende il suo formato è dovuto a molte variabili. Ad esempio, il brano principe della storia del rock, Like a rolling stone di Bob Dylan, inizialmente era stata composta come un innocuo valzer al pianoforte. Poi è diventata quell’incandescente colata lavica che ha incendiato il mondo.
Riprendendo Against the Wind, brano di fine anni 70 del rocker di Detroit Bob Seger, che nella sua versione originale suona come una piacevole e innocua ballata soft rock, di impianto californiano, D’Acri fa emergere invece la crudezza e la disperazione del brano stesso. Ne dà una resa spettrale, claustrofobia, inquietante e i versi stessi risaltano adesso decisivi. La strumentazione contribuisce al risultato, con una chitarra elettrica che lavora di disturbo ai fianchi in modo ossessivo.
Lo stesso succede in Glory Days di Springsteen: l’allegro ballo caciarone e apparentemente spensierato viene accelerato e ribaltato. La voce doppiata fa eco a se stessa ed emerge tutta l’amarezza del protagonista del brano, che vede la parte migliore della sua vita andata per sempre.
A giudicare dal repertorio prescelto, che comincia con il classico di Jerry Lee Lewis Great Balls of Fire e arriva fino ai Social Distortion di Story of my Life, D’Acri ha probabilmente voluto fare una carrellata cronologica di pagine più o meno conosciute della storia del rock. I momenti migliori, oltre a quelli già citati, accadono quando si dedica a intense ballate di origine folk. Succede con Sonny’s Dream (del cantautore americano Ron Hynes) e nel classico del folk Black is the color, interpretazioni magistralmente intense grazie anche all’ottima resa vocale del nostro. Piace anche la declamatoria Shelter from the storm (Dylan) del tutto stravolta nell’impianto melodico e con l’uso interessante di alcune strofe parlate in italiano che danno un’immagine profonda e apocalittica al brano portandolo a nuovi limiti.
Deliziose anche Don’t let us get sick dell’ultimo Warren Zevon e Thunder Road in chiusura, così come evita ogni scontentezza uno dei brani più noti della raccolta, Forever Young ancora di Dylan, di una mestizia quasi insostenibile grazie anche allo straordinario violino di Chiara Giacobbe.
L’unico limite del disco è la troppa carne al fuoco: appaiono abbastanza inutili e scontate le rivisitazioni rock’n’roll di Great balls of Fire, Blue Suede Shoes e Lonely boy (Black Keys), ma non per questo il disco perde punti.
Di alto livello tutti gli accompagnatori musicali coinvolti, da Chiara Giacobbe al violino a Andrea Giannoni all’armonica, da Luca Bistrattin e Walter Muto alle chitarre e infine Stefano Origgi batteria e Fabio Besana al basso.