Sto scrivendo queste righe a Cesenatico, a poche ore dal primo dei due concerti con cui i Miami & The Groovers festeggeranno l’uscita del loro nuovo album, “The Ghost King”, il quarto della loro carriera, che arriva a tre anni di distanza dall’ottimo “Good Things”. 

Il disco gira nel mio stereo da una settimana, abbastanza per farsi venire una voglia matta di ascoltare dal vivo i nuovi pezzi. 



Ce ne sono di band, in Italia, ma davvero poche sono come loro. Lorenzo Semprini ha sempre fatto del rock una fede, una ragione di vita, suonando in lungo e in largo in tutta Italia, non dimenticando qualche bella puntata in Europa e negli Stati Uniti, dove ha un sacco di amici ed è ormai conosciuto e rispettato all’interno dei circuiti che contano. In Italia, tra le alte cose, non sono molti che possono dire di aver diviso il palco con Mr. Springsteen in persona. 



E proprio qui arriva il bello: perché se c’è un pregio, tra i tanti di questo “The Ghost King”, che merita di essere evidenziato immediatamente, è proprio quello di avere forse definitivamente sganciato i Miami dalla definizione di “Springsteen della Riviera Adriatica”. 

Oddio, non che il precedente disco potesse dirsi totalmente appiattito sulla proposta dell’artista del New Jersey, eppure è indubbio che questa è una band che ha sempre guardato da quelle parti, oltre che in generale a tutti i grandi del rock americano. 

Tre prove in studio all’insegna del costante miglioramento e un dvd dal vivo registrato proprio in quel Teatro Comunale dove questa sera si inizierà la festa, sembrano decisamente segnare la fine di un ciclo. Come a dire, fin qui avete visto chi sono i nostri modelli, adesso vi facciamo vedere che possiamo anche prendere altre strade. 



“The Ghost King” è un disco maturo, inutile girarci attorno. La band riminese ha abbandonato le atmosfere festaiole, i viaggi epici lungo l’autostrada, le battaglie d’amore sui boulevard lungo l’oceano, per gettare uno sguardo a cosa c’è dentro di noi. Perché in fin dei conti abbiamo tutti dei fantasmi dentro. Possono essere buoni (raramente, in verità) o cattivi (il più delle volte) ma è difficile che se ne vadano e prima o poi bisogna farci i conti. Quando succede, è spesso un momento decisivo, ne va del continuare a vivere, nel venire a patti con se stessi, nel capire e nell’afferrare qualche pezzo in più di questo grande disegno che è l’esistenza. 

Spegni le luci, perché non voglio vedere. Spegni la notte, che mi terrorizza. Spegni le luci, sono un rifugiato. C’è una guerra là fuori, ma non è per me e per te”. Si apre così la prima traccia, “The King Is Dead”, un bel pezzo tirato, dal suono potente in cui le chitarre sono splendidamente doppiate dal violino di Federico Mecozzi, sesto uomo e vero valore aggiunto di tutto il disco. 

Niente più storie, niente più narrazioni, spariscono i punti di riferimento e si passa ad evocare visioni non proprio rassicuranti: “C’è un uomo nel buio, il coltello pronto a scattare. La vita è una scalata lunga e dura”. Per fortuna però nel ritornello si canta che “Il re è morto e io sono vivo. Ho trovato fiume che scorre fin dentro le terre selvagge, ed è dove dormirò stanotte”. Nella fuga una speranza, insomma,  una possibile rinascita. 

Se il valore di un disco si capisce dall’opener, questo allora è pericolosamente vicino al capolavoro. Una bordata di energia, l’atmosfera epica delle linee vocali, la coda finale con l’hammond di Alessio Raffaelli sugli scudi. Il tutto corredato da una produzione superlativa, indubbiamente la migliore che i Miami abbiano mai avuto. 

Il primo singolo “On The Rox” è un’altra grande conferma: una danza sontuosa di chitarre e pianoforte, un’atmosfera tesa, un drammatico crescendo per raccontare la tragica storia di John Belushi, così come appare in “Wired” del grande Bob Woodward, un libro che a Lorenzo sembra essere piaciuto davvero parecchio: “Sono le 7 del mattino sul Sunset Boulevard e sto parlando con il mio fantasma. Sono stato in piedi tutta la notte. Quando il gioco si fa duro, io sono il più duro di tutti. Posso sentire il calore correre nelle mie vene. Perché sono un acrobata, con il corpo imprigionato dalle catene”. 

Poi c’è “Hey You”, una gran botta rock and roll senza troppi compromessi, veloce e nervosa come certe cose che si ascoltavano anche su “Good Things” ma molto più rabbiosa e rifinita. Una di quelle che stasera farà letteralmente a pezzi il teatro, non c’è da dubitarne. 

“Back To The Wall” la conoscevamo da tempo, perché è da più di un anno che viene suonata dal vivo e ne è stata anche pubblicata una versione nel Bonus dvd che conteneva le outtakes di “No Way Back”. A sentirla in studio, risulta perfettamente amalgamata col resto del materiale, usufruendo anch’essa di un gran lavoro di produzione. Una cavalcata epica, dalle atmosfere vicine ad un grande classico come “Sliding Doors” e che racconta, a quanto sembra, la lunga strada che ci tocca percorrere quando vogliamo dare forma ai nostri sogni: “Ho lasciato la mia città quando ero giovane. Niente e nessuno potevano fermarmi. Avevo una chitarra e sogni in abbondanza. Strade piene d’oro e fare l’amore nei campi. Ero un lavoratore ma non ho mai avuto una casa. Non potrò essere più buono come prima. Troppe bugie ti stanno fregando. Dovresti essere onesto ma sarebbe meglio avere una pistola”. 

Fin qui tutto bene. Sembra il solito, grande disco dei Miami & The Groovers, solamente molto più maturo, serio e consapevole, con una maggiore ricerca sonora e un lavoro molto più curato negli arrangiamenti. 

La sorpresa arriva con “Hallelujah Man”, che ha una fisarmonica a disegnare il tema principale, per un folk tutto italiano piuttosto vicino a certe cose dei Gang ma con un retrogusto balcanico e festaiolo che non può non portare alla mente Goran Bregovic. Un andamento saltellante e un ritornello irresistibile la rendono uno dei brani forti del disco, assieme a “We Can Rise”, che si muove sulle stesse coordinate ma che ha un ritmo più suadente, con una strofa quasi parlata e un ritornello etereo, il tutto sostenuto da uno splendido ricamo di archi. 

Un pezzo che parla di speranza, di rinascita, forse il punto più autenticamente positivo di questo lavoro: “Un giorno dimenticherai di essere spaventato e ti rialzerai ancora in piedi. Volterai pagina e potrai volare via. Verrà il tempo in cui questa pioggia si fermerà. Tu conterai i giorni e tutto ciò che ti resta. Nella tua giacca c’è un biglietto per una corsa senza fine. L’amore sarà la risposta e ti spiegherò il perché. Possiamo risollevarci. Ci risolleveremo”. 

Altrettanto particolare è la nervosa “Don’t (The Toxic Waltz), che gira attorno ad un riff sporchissimo e che ha un’attitudine quasi punk, come se il chitarrista Beppe Ardito vi avesse riversato dentro tutta la sua nota passione per i Clash.

 

Poi ci sono le ballate: a voler essere sinceri, questo l’ho sempre considerato il lato debole di Lorenzo e compagni. Negli anni hanno sempre scritto cose interessanti ma quasi mai all’altezza del loro lato più aggressivo. 

Questa volta, invece, sembrano aver trovato la quadratura del cerchio: “The Other Room” vive di un perfetto equilibrio tra strofa e ritornello, quest’ultimo impreziosito dai cori di Marcello Dolci e Michele Tani dei Nashville & The Backbones, tra i numerosi amici di lunga data di una band che ha sempre avuto una grande e affezionata famiglia attorno a sè. 

“Spotlight” è l’altro brano che conosciamo da tempo ma non per questo risulta meno bello. Una canzone di saluto, un augurio di buon viaggio e di buona vita su quelle “Dirty Roads” che i ragazzi dei Miami percorrono ormai da dieci anni esatti (“Puoi seguire un altro fantasma. Giorno per giorno, da costa a costa. Possiamo restare fermi sotto il riflettore. Buonanotte, arrivederci, ti auguro una buona vita”). Anche questa vive di un suono pieno e di un ritornello meraviglioso, che già da un anno e mezzo scandisce a volte i finali dei loro show e che, da qui in avanti, diventerà probabilmente la colonna sonora fissa dei loro titoli di coda. 

 

A conti fatti, forse il pezzo più debole è “Waiting for my Train”, un folk acustico ben scritto e molto coinvolgente ma che risulta un po’ troppo standardizzato. Di fronte all’altissima qualità degli altri pezzi però, apparirebbe piuttosto esagerato lamentarsi. 

In chiusura, segnalata come bonus track ma di fatto in scaletta a tutti gli effetti, c’è “Heaven or Hell”, che strizza più di un occhio ai Pogues e che, come “We’re Still Alive” nel disco precedente, diventerà un altro bel must dal vivo. 

 

Il Re Fantasma è arrivato, dunque. Potrebbe essere difficile guardarlo in faccia potrebbe essere fastidioso scoprire che cosa ha in serbo per noi. Ma è comunque una partita che merita di essere giocata e i Miami & The Groovers, di sicuro, se la sono giocata alla grande. Questo quarto lavoro è di gran lunga il migliore della loro discografia, è profondo, maturo, ha introdotto elementi nuovi nel suono della band, è variegato ma nello stesso tempo straordinariamente compatto, ed è indubbiamente dei quattro, quello che gode del suono migliore. È il caso di aggiungere ancora qualcosa? 

 

In realtà forse sì. Riprendendo in mano questo pezzo il giorno dopo i due splendidi concerti di presentazione, abbiamo anche raggiunto la certezza che questo nuovo materiale, seppure ancora in fase di rodaggio, non teme nessun confronto coi cavalli di battaglia più navigati della band. Comprate il disco e andateli a vedere, quindi, perché saranno presto dalle vostre parti. Per capire cos’è oggi il rock in Italia, un loro concerto vale più di mille parole.