“Io sono qui stasera per dirvi un sacco di fesserie che vi cambieranno la vita”. Ovvero il riassunto più succinto di quello che è successo al Teatro Dal Verme di Milano venerdì 13 marzo.
Dario Brunori, dopo aver girato tutta l’Italia portando in giro i suoi tre album, dopo aver aperto qualche data per Ligabue, ha deciso di fare una tournée nei teatri. Così nasce Brunori Srl ( e non SaS, come normalmente si fa chiamare), una società a responsabilità limitata, uno spettacolo teatrale in cui vengono sapientemente mischiati divertenti, e mai scontati, monologhi a brani saggiamente scelti.
La formula è chiara: Brunori racconta Brunori. Le storie del cantautore calabrese, che in certi momenti diventano le storie di tutti, gli aneddoti e le citazioni dietro i pezzi più famosi che, attraverso la bellezza della musica, riescono a guadagnare un respiro universale. La locandina riporta “Canzoni e monologhi intorno alla trasformazione di una società”, ma non è la critica fine a sé stessa, la canzone di protesta o il monologo politicizzato che spiegano questo cambiamento, a farla da padrone è l’ironia, la battuta e il sorriso.
Già solo nel breve monologo iniziale si confermano queste caratteristiche: una mattina perfetta, utopica di uno qualsiasi dei presenti, dove tutto va per il meglio. L’alito non puzza, il caffè è già fatto e pronto per essere servito, persino l’iPhone, che la sera prima non si era messo in carica, ha la batteria al massimo. Poi, si sta già pensando a cosa fare la sera: andare a teatro, sentire canzoni struggenti e monologhi intelligenti e uscirne cambiati. Peccato, taglia corto Brunori, che non sarà questo il caso. Un sorriso, una risata sotto i baffi scappa a tutti: da chi è lì perché vuole sentire “Rosa” e “Guardia ’82” agli snob milanesi che finalmente vedono musica indipendente unita a uno spettacolo a teatro. Ma il tempo per ridere è un attimo, che già il cantautore ha abbracciato la chitarra e sta cantando “Fra un milione di stelle”, seguito dalla band al completo. Prima di iniziare con il monologo successivo, fa “Lei, lui, Firenze” e “Una domenica notte”.
Si spengono di nuovo le luci e Brunori, solo sul palco, inizia a canticchiare una filastrocca, una “ninnananna alla Dario Argento” come, spiritosamente, la chiama lui. Terminata bruscamente quella, inizia a raccontare di Joggi, lo sperduto paesino di montagna in cui è cresciuto, dell’empatia che si crea guardandosi negli occhi, per le viuzze dietro casa e non nelle autostrade del Web, “anche solo per tirare un pugno”, aggiunge. Parla della vita normale, quella dove la tua identità è determinata dal soprannome che ti rimane appiccicato per i motivi più assurdi, dal “fare il maiale” per le feste, della mamma che ti proibisce di guardare i cartoni giapponesi “perché troppo violenti”. Esperienze comunissime, quotidiane e quasi banali, che però vanno a formare una tradizione, uno zoccolo duro di esperienza da traghettare nel futuro, nel reale sempre più cangiante e mutevole.
Su questo tema sono le tre canzoni successive, “Nanà”, “Le quattro volte”, “Maddalena e Madonna”, che raccontano la normalità che guadagna l’abbraccio dell’universalità attraverso l’emozione suscitata. Tutti a bocca aperta, incantati dalla semplicità della bellezza, con gli occhi fissi su quell’omino barbuto che si dimena su una sedia, avvinghiato a una chitarra che canta quello che tutti hanno, o stanno, sperimentando.
Dopo questo momento di poesia, Brunori ricomincia con la ninnananna strana, che nel corso della serata verrà spiegata. Viene tranciata a metà perché salta all’improvviso sul palco “per imitare Carmelo Bene che ai giornalisti piace sempre”. Nell’ilarità generale si capisce il tema di questo monologo, cioè la cultura. Da De André, che qualsiasi frase è un immortale capolavoro poetico, a Brunori il cui verso più famoso, come fa notare lui stesso, è “nanana”. La passione per la cucina spettacolarizzata, unico vero punto di contatto tra l’intellettuale odierno e la casalinga di Voghera, che porta a show culinari sempre più violenti, tipo MasterChef, da lui descritto come “il mix tra Full Metal Jacket e Schinderl’s List”.
Poi parla dei giovani, e di come già ai tempi di suo nonno non esistevano, perché “si passava direttamente dai calzoni corti anche con la neve ai calzoni lunghi, cioè l’età adulta”. Di come una volta il figlio era una risorsa e oggi una spesa, di come i giovani sono impegnati a lavorare in nero e quindi sono i vecchi costretti a fare quadrato contro le istituzioni. In un clima più di risate più che di denuncia sociale, i temi trattati sono impegnativi e il giudizio del cantautore è forte e chiaro, ma sopratutto si fa sentire senza cadere come un macigno sulla serata o essere calato dall’alto da “chi ne sa più di te”.
Detto questo, è tempo di suonare di nuovo, altro blocco e altri tre brani: “Sol come sono sol”, “Pornoromanzo” e “Il giovane Mario”. Brani sì scanzonati, sì cantabili ma che raccontano storie tristi a sfondo critico sulla società, che raggiunge il pubblico senza mai cadere nel comizio.
Finite queste canzoni, la solita filastrocca per introdurre il nuovo monologo. Inizia parlando del senso di colpa, che lo attanaglia sin da piccolo, del non riuscire a dormire la sera, di come avesse il bisogno di sbattere la testa contro il cuscino, recitando quella ninnananna che continua a ripetere dall’inizio della serata. Sarà pure un particolare, ma è la cifra dello spettacolo. Non tanto per il contenuto della ninna ma per l’intimità della faccenda. Perché arrivare a raccontare di sé partendo da un’esperienza così infantile, così privata è incredibile. Non ci sono artifizi, retorica o battute costruite a tavolino, dialoghi scritti con team di mille esperti, ma, semplicemente, un uomo. Che prende la sua esperienza e la mette su un palco, sgraziata e ripetitiva, normale e normalissima, e la offre a tutti. E poi, con la semplicità degli accordi e un arrangiamento studiato, arriva la bellezza “che cambia il colore del cielo il sapore del vino”. Con coscienza ci si stacca dalla malinconia di ciò che è stato, con l’epicurea certezza che ormai è passato, e si osserva tutto con l’ironia, enorme strumento per raccontare l’oggi.
Brunori poi continua con il suo monologo, che poi è il proseguire della storia della filastrocca. Racconta di lui che, non riuscendo a dormire, inizia a canticchiare quella inquietante ninnananna e a sbattere la testa sul cuscino ritmicamente, facendo molto rumore. A quel punto, si alzava il padre e, avvicinandosi pian piano alla cameretta, tirava giù un bestemmione per fare stare zitto il piccolo Dario. E finalmente andare a dormire, dopo quell’urlo. Tenendo sempre la fatica ad addormentarsi come fil ruoge, racconta di come sognava di fare il musicista ma, a causa dei troppi sogni, senza combinare nulla.
Dice di essersi trovato a fare il chitarrista indie-pop in Toscana, come “Albano che suona i Sigur Ros”, per poi essere richiamato in Calabria per fare il muratore. Nel mentre muore papà, e(dopo un rapido calcolo delle anime in Inferno/Purgatorio/Paradiso) a lui attribuisce il suo successo perché “lui ha messo una buona parola dall’aldilà”. In un momento si sento tutto lo struggimento di un uomo davanti all’impietosità della morte, il dolore per un padre che non c’è più e la voglia, lacerante, di abbracciarlo e di chiedergli scusa per tutte le notti in cui non l’ha fatto dormire. E qui la musica si rattrista, e lui suona “Bruno mio dove sei”, “Come stai” e “L’asino e il leone”.
In un momento si abbassano le luci, tutto silenzio quando Brunori salta sul palco, teschio in mano e qualcuno inizia a urlare, a declamare “Guardia ’82”. A detta dello stesso Dario, non c’entra niente ma “è una cosa che ho sempre desiderato fare”. Quasi spontaneità, quasi come potrei fare con degli amici davanti a una birra, a ridere e a scherzare, a alternare battute idiote a momenti di riflessione.
Dopo questa breve parentesi inizia l’ultimo “blocco” della serata, quello incentrato sulla fama. Parte da “Loser” di Beck, guardandola come descrizione di quel che era lui da piccolo. Incapace negli sport, lui che una volta ha vinto una campestre tagliando un giro, stufo di far fatica per niente e di vedersi doppiato da tutti gli altri bambini. Narra di lui, con il maglione e la camicia a quadretti, che si mette a fare gli assoli degli Iron Maiden “perché fa figo”. Poi, finalmente, grazie alla musica, il riuscire a diventare importanti e famosi. Allora i bambini di prima, che senza pietà lo superavano negli sport, diventano gli amiconi di oggi. Tutti che gli fanno i complimenti e lui, per essere all’altezza, si attacca al personaggio. Diventa un beniamo, diventa un idealizzato. Spiega che, anche se rispondesse a un messaggio come vento di un fan mandano una foto di lui al Brico mentre cerca le guarnizioni, sarebbe scambiato per “quello umile”. Dice che si desidera la fama perché “loro hanno una bella vita e io no”, e invoca a gran voce un “Leader Loser” per essere democratici anche nel successo. E poi termina, citando l’immortale Marchese del Grillo, “io so’ io, e voi non siete un cazzo!”. Ta le risate di tutto il pubblico ricomincia a suonare, facendo “Kurt Cobain” e chiudendo con “Arrivederci tristezza”.
Ma lo spettacolo non è finito, infatti Brunori ricompare, solo, sul palco, leggendo “la prima mail di brunori@gmail.com ai corinzi.corinto@cittàdicorinto.org” in cui, dopo un lungo elenco di tutti problemi del mondo, invita tutti i presenti a “dare la colpa a Brunori”.
Sul palco non rimane nessuno, sembra tutto finito ma, neanche cinque minuti dopo, riappaiono i musicisti, e attaccano con “Mambo reazionario”. Sembra quasi di non essere nemmeno in un teatro, per quanto siano comode le poltroncine, non riescono a fermare la sferzata di vitalità che investe il pubblico. La ragazza seduta davanti a me probabilmente ha aspettato questo momento per tutto la serata, e finalmente è libera di dimenarsi come se non ci fosse un domani sulle balconate del Dal Verme.
Sono uscito da teatro soddisfatto come non lo ero da un pezzo. La semplicità, l’immediatezza che tutti cercano, le esperienze che(seppur in misura ridotta) posso dire essere di chiunque, monologhi brillanti e battute azzecatissime che incontrano la bellezza vera e genuina di chi fa qualcosa per essere soddisfatto. Un lavoro fatto bene, curato in moltissimi aspetti e che lascia un segno.
Uno spettacolo di una bellezza dirompente e stupefacente. Speriamo solo che adesso riesca a mantenere questo livello in tutti gli ipotetici progetti futuri.
(Gianluca Porta)