Francesco De Gregori è un figo. E’ un figo non solo perché a quasi 64 anni di età è in forma fisica smagliante. E’ un figo non solo perché a quell’età si diverte sul palco come avesse 18 anni. E’ un figo soprattutto perché è rimasto quello che era a vent’anni e quello per cui lo abbiamo amato quando ha cominciato a fare quello che fa: il cantautore, il musicista, l’interprete, l’uomo di musica e parole.



A differenza di quasi tutti i suoi colleghi e coetanei, non ha cercato di cancellare le sue radici, la sua essenza, con improbabili svolte musicali, evoluzioni pseudo intellettuali (tipo quelle di chi ha avuto successo grazie al rock, salvo poi dichiarare che il rock è musica conservatrice), progetti collaterali, libri, film e romanzi presto dimenticati da tutti.



No, è sempre lo stesso e per questo gli vogliamo bene. De Gregori che non ha mai nascosto le sue radici, quelle che anche noi ragazzi degli anni 70 amavamo, quell’America che come lui, anche noi non avevamo dubbi nel dichiarare: “Se avessi potuto scegliere fra la vita e la morte, fra la vita e la morte, avrei scelto l’America”. C’è tutta l’America, lontana e vicina, questa sera nelle note di De Gregori e della sua strepitosa banda di musicisti. 

In un’altra epoca, in un altro tempo, quello che De Gregori oggi definisce “archeologia” qualcuno con una pistola in mano lo prese in ostaggio impedendogli di cantare in nome di una qualche ideologia. Quasi quarant’anni dopo, al Forum di Assago risuonava in qualche modo l’eco di alcune parole di Bob Dylan: “Probabilmente te ne andrai per la tua strada e io per la mia, il tempo dirà chi è caduto e chi è rimasto in piedi”. Il tempo questa sera ce lo ha detto molto bene chi è rimasto in piedi.



Lo ha detto lui stesso recentemente: “Quello che conta in un artista è la coerenza, essere coerenti con se stessi”. Ecco. Gli altri, i suoi colleghi, si sono persi e in gran parte li abbiamo dimenticati, tranne revival di nostalgia. Lui fedele a se stesso, alle sue passioni, ai suoi amori, invece è qui, più vivo di tutti, e di nostalgia neanche una traccia.

Il concerto del VivaVoce Tour a cui abbiamo assistito al Forum di Assago è stata una rivelazione. Alzi la mano chi, pur avendolo visto dozzine di volte come il sottoscritto, si aspettava un artista in tale sforma smagliante, un repertorio così efficace, una band così spumeggiante (dieci persone sul palco oltre a lui, compresa una inedita sezione fiati che ha dato corpo e vigore a molti pezzi). Dentro, di tutto: dai ritmi latini di una travolgente Sotto le stelle del Messico a trapanar totalmente riscritta, al rock blues fumoso, aspro, sferragliante di una maestosa Mayday (a cui hanno contribuito quei fiati fantastici) al folk purissimo e cristallino delle toccantiBellamore, Caterina, Non c’è niente da capire, Alice.

Un ospite mica tanto a sorpresa è apparso piccolino piccolino di fronte a questo gigante non solo per il suo metro e novanta di altezza, ma per la caratura artistica. E così Ligabue, uno che riempie gli stadi a botte di centomila spettatori, è apparso intimidito, quasi spaventato davanti a De Gregori, con cui ha duettato in quattro brani, due suoi (Non dovete badare al cantante e Il muro del suono) e due dell’artista romano (Alice e Atlantide).

Un concerto lunghissimo, quasi tre ore, 27 pezzi, due serie di bis eppure neanche una nota o un brano che annoi o distragga da una tensione che parte dall’inizio (il rockabilly blues di Finestre rotte) alla fine, la melodia popolare abruzzese di Volavola. In mezzo classici come Viva l’Italia, Generale (bellissimi interventi di armonica di De Gregori), La leva calcistica della classe 68,Titanic, La donna cannone, Rimmel. Ma anche rarità, come l’intensa La ragazza e la miniera o La testa nel secchio, martellante e quasi industrial nel suo incedere ossessivo. E pure una cover di Leonard Cohen, Il futuro, che De Gregori aveva tradotto anni fa per l’amico Mimmo Locasciulli e che in questa dimensione visionaria, apocalittica e romantica allo stesso tempo e profondamente americana che è questo concerto trova collocazione perfetta. 

Una cavalcata di emozioni forti, poi tutto si riassume nel primo bis: Can’t help fallin’ in love vecchio classico di Elvis è cantata in modo commovente, dichiarando l’amore dell’artista per il suo pubblico fedelissimo e transgenerazionale. Perché si gioca tutto qui, nell’amore e nel desiderio che la nostra vita sia presa in mano e abbracciata tutta intera: “take my hand, take my whole life too”. La voce, viva voce, non mente.

Incredibile De Gregori, ancora una volta nasce e rinasce senza voler smettere mai. Questo tour è l’evento musicale del 2015, ovviamente secondo solo a quello di Bob Dylan dei prossimi mesi. E non è un caso che i due artisti incroceranno le loro strade la sera del primo luglio sul palco del Summer Festival di Lucca. Siete avvisati.