Sbuca dall’automobile, prima il suo grosso bastone e, a seguire, lui, con mosse lente e affaticate, infagottato nel lungo piumone color tenente Sheridan, nel freddo milanese ormai buio del tardo pomeriggio invernale. È il 2 dicembre 2011. Viale Papiniano 58: praticamente Porta Genova, e San Vittore mica tanto lontano. Appuntamento con i ragazzi di Portofranco dove quasi duemila studenti delle superiori, di ogni genere, nazione e colore, vengono aiutati gratis a studiare da tanti volontari, giovani universitari o professori e anche ingegneri in pensione. Destinazione: ultimo piano dello stabile, una rampa di scale via l’altra, e non c’è alternativa perché l’ascensore è rotto. Il medico artista s’aggrappa con i suoi 76 anni e i suoi malanni al corrimano, e su su come una scalata, senza una lamentela. Guarda negli occhi i ragazzi che lo attendono più in su e a mezza voce emette una specie di implorazione alla sua maniera: “… magari una carrucola….”. Finalmente il salone, addobbato con qualche luminaria per l’approssimarsi del Natale e popolato da una multietnìa di ragazzi, forse duecento, tra i quindici e i diciotto anni, incuriositi assai dal personaggio famoso e dal pianoforte già lì pronto, che anch’esso aspetta di sapere cosa mai ci suonerà il Maestro.



Enzo: Vi ringrazio per questa bellissima situazione che mi avete fatto trovare, che non immaginavo fosse così adombrata di luce, di gioventù e di mistero, e naturalmente di umanità. É vero, io… io se non vedo l’umanità dentro agli occhi di una persona, non… non capisco. Siete tutti un po’ molto giovani… Io sono tutto un po’ molto vecchio. Però mi diverte questo trapasso. Volevo farvi sentire una cosa che dedico a tutti.



Accompagnandosi al pianoforte Enza canta: “Prendeva il treno” e poi “Vincenzina e la fabbrica”

Moderatore: Questa di Vincenzina è una delle tue canzoni preferite. Perché?

Enzo: Perché quando io vedo qualche cosa che mi emoziona davvero, mi vien voglia di mettere giù un testo e allora io mi adeguo, mi adeguo ad una storia che si va poco per volta delineando dentro di me. Vincenzina potrebbe essere l’operaio, perché Vincenzina è un operaio… Mio padre era un maresciallo di aviazione; per quarant’anni ha fatto l’operaio dei cieli, e molte volte è andato giù. E io mi sono ispirato tante volte a mio padre, che poteva tornare a casa la sera o poteva non tornare. Io mi ci ero abituato, in un certo modo, come Vincenzina si abitua, a vedere se Vincenzina, se lei, saprà abituarsi tutta la vita al fatto che la fabbrica ci sia, o non ci sia, e… se c’è, com’è. Questa è la storia di Vincenzina. Vi sono particolarmente affezionato perché i nomi, le parole, hanno un loro senso umano e io ci capisco molto dentro il senso umano delle parole, che vengono fuori da qua e da qua [indica la testa e il cuore].



Moderatore: A me piacerebbe ascoltare “Ho visto un re”. Questa canzone per me contiene una delle cose più grandi: la dignità della persona, del poveretto che, di fronte al potente, non si mette a urlare, però non si fa neanche schiacciare, ma usa l’arma dell’ironia e della libertà. E’ un modo per affermare di esserci e per stare di fronte ai potenti.

Enzo canta “Ho visto un re” insieme a tutti.

“E sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re fa male al ricco e al cardinale diventan tristi se noi piangiam!”

Ragazzo: Perché ti è venuto in mente di scrivere una canzone sul cane con i capelli?

Enzo: Nella vita succedono delle situazioni che non si riuscirà mai a spiegare… Ultimamente la canto spesso perché è il vero e proprio simbolo del diverso. Molti hanno fatto fatica a capirlo, molti non hanno voglia di sentirselo dire, di sentirne parlare…

Enzo canta “Il cane con i capelli”

Ragazzo: Perché hai detto proprio “il cane con i capelli” anche se non esiste?

Enzo: Esiste, il cane con i capelli.

Enzo: Mi piace fare lo stupido, forse perché sono proprio stupido, e allora mi viene benissimo. Stupido viene da stupore, stupor, … [Enzo fa la faccia dello stupido, e tutti ridono]… E allora lo stupore che anima proprio gli stupidi, li anima, li fa camminare, li fa vestire… male… bene (più male che bene). Cosa hai nella testa di chiedermi?

Moderatore: Che ferita hai nel cuore? Enzo: Eh eh… Non so la qualità, so che è grande…È nata grande e non si chiude.

Moderatore: Che cosa la fa crescere?

 

Enzo: La fa crescere vedere delle persone che tirano via dritto, fanno finta di niente, abbassano la testa…

 

Moderatore: E fanno finta di non averla [la ferita, ndr]

 

Enzo: …fan finta di non averla, vànn drizz. Ed io a vedere queste situazioni qua, dove gente che ha una specie di testa – l’è on ballòn – praticamente mi viene da sentirmi male, ma mi sento male prevalentemente dove c’è il ventricolo sinistro, qui… “Non guarisci! Già morto…” A me non me ne frega niente. Dice: “Ma te non guarisci?” No.

 

Moderatore: Le tue canzoni sono piene di gente che soffre. Quando vedi uno che soffre cosa ti viene in mente?

 

Enzo: Mi viene in mente se la ferita è giusto che rimanga lì, che ogni tanto sanguini e ogni tanto no. Mi viene in mente se questa ferita abbia ragione di esistere, e io dico di sì. Qualcuno dovrebbe… averne un paio. Queste ferite non sono dolenti… Pensate alle ferite che ha avuto il Nazareno, in croce. Io ho un quadro vicino al letto dove c’è un Nazareno in croce che non è ancora cosparso di brutte armi da taglio, ma stranamente c’è un ragazzo come voi che – a me non piace molto – abbraccia i piedi del Nazareno proprio ai piedi della croce e questa volta il Nazareno non può, come successe tanto tempo fa, dargli una carezza, anche perché è fissato con i chiodi alla fascia orizzontale che si attacca a quella verticale della croce. Poi c’è una cosa molto importante, che mi dà anche molto fastidio: ma questo Nazareno qui perché continua a guardare le scarpe di Gaber? Questo qui porta i blue jeans, torso nudo e le scarpe di Gaber. Io gli ho voluto bene a Giorgio, portava le Clark, e le ha fatte mettere a quello lì al pittore che ha dipinto questo quadro qua…

 

Moderatore: E l’amicizia cosa c’entra con la ferita?

 

Enzo: Eh, bisogna andarci dietro, alle ferite, se no non se ne viene a capo. Bisogna volergli bene, e sentirle non come un dolore, ma come una continuazione del dolore. E allora ti si inumidiscono gli occhi, ti viene da piangere… E ci sono sempre quelle scarpe lì di Gaber che… E ridi o piangi, eccetera eccetera, è sempre lì la storia. É una ferita che non smette mai di sanguinare. Chissà… domani…

 

Intervento: Enzo, che cosa ti senti di augurare a questi ragazzi?

 

Lunga pausa


Enzo: Mi sento di augurare tutta la felicità che ha promesso il Nazareno, attraverso una carezza e una ferita. La carezza che ha dato via un giorno che passavano due brave persone, povere… La ferita ce l’ho da sempre; mi fa piacere avere questa ferita. Finiremo con una canzone. Poi abbiamo finito con questa specie di parodia sulle ferite, sulle carezze… Ve l’ho detto apposta, ve l’ho detto perché non abbiate mai a dimenticare che queste cose qui ve le ha mandate Lui… Non dimenticatevelo mai.

 

Canta: “Ti te sé no”

“Ti te se no ma quand mi te carezzi la toa bella facetta inscì netta per mi, me par de vess on scior, on scior che el g’ha la radio noeuva, e in de l’armadio la torta per i fioeu”