Due anime differenti giocano a viso aperto.  C’è la prospettiva sconfinata e trascendente di certa grande canzone d’autore del passato.  Quella piena di un senso di perdita e di fragilità.  E c’è una certa adulazione manovrata con destrezza che, sotto la svago di facciata, funge sia da relax venato di provocazione che da ebbrezza figurata, quasi un’illusione effimera sorvegliata a vista.  C’è il minimalismo degli affetti e l’imponderabile della nostalgia.  C’è tutto questo e anche altro ne “Il Soffio” nuovo disco del cantautore napoletano Roberto Michelangelo Giordi.



C’è il reload del retroterra culturale che da sempre anima la migliore tradizione del cantautorato italiano e della musica napoletana.  Le pulsioni artistiche di oggi e di ieri.  Gli Endrigo, i Bindi, i Paoli, i Ciampi da un lato, i movimenti e sommovimenti del popolare e dell’etnico dall’altro.  

Quell’arte dell’incontro musicata e cantata nel 1969 appunto da Sergio Endrigo in quella combinazione unica di contributi e apporti con De Moraes e Ungaretti sembra rivivere sotto diverse sembianze e intenti o perlomeno sembra assumere un nuovo significato in un incontro che sa di antico e nuovo allo stesso tempo.  La bravura musicale e la vena poetica di Giordi si unisce all’abilità di scrittura di Alessandro Hellmann e di altri parolieri (Alberto Marchetti), compositori (Fabrizio Gatti) e musicanti.  Ne scaturisce un puzzle i cui frammenti vanno a saldarsi magicamente sotto la regia e la produzione del mago Gigi De Rienzo fondamentale colonna storica del neapolitan power, sorta di eroe di due mondi passato dalle escursioni tra jazz, rock e blues di Pino Daniele e Napoli Centrale alla recente rinascita del pop melodico nostrano (Corinne Vigo).



Qui lo si rivede – con l’inseparabile Bob Fix al mastering – giocare a tutto campo nelle vesti di arrangiatore, produttore e supervisore di suoni grazie ai quali le melodie generate da Giordi trovano il loro ideale habitat sonoro.  La vena d’autore fortemente connotata e meticolosa del predecessore “Gli Amanti di Magritte” si ridefinisce e diversifica in un disco che alterna atmosfere rarefatte e dense a ripartenze in surplace piene di ispirata leggerezza.   

Un disco che si apre con gli irriverenti passi di danza de La grande fuga, piccolo sberleffo che scherza con levità ed ironia con le atmosfere ammiccanti dei Koop di Summer Sun, per poi placarsi immediatamente e distendersi in un autentico pezzo di bravura come Il vecchio e il mare dove un incpit che prende le mosse da suggestioni afro-celt lascia spazio ad un memorabile largo arioso che invoca i fantasmi di Endrigo e Bindi. 



Occhi grandi ingloba nella solida struttura d’autore stimolanti aromi mediterranei con un De Rienzo che qui si avvale del pregiato chitarrismo di un altro storico musicista d’area come Franco Giacoia.  Allo stesso modo Il soffio, che forse rappresenta il frutto migliore della sezione più contaminata del lavoro.  

Qui la scrittura va in sospensione su una liquida distesa di archi, una particolare sequenza armonica e una evocativa coda etnica dove la voce modulata di Annalisa Madonna viene contrappuntata da quella sussurrata e “tribalista” di Thieuf.  E’ l’ideale crocevia del disco.  Le grandi conquiste, le profonde intuizioni al servizio dell’umano, l’arte e la bellezza sembrano cosa piccola e provvisoria al cospetto del tempo eterno e della natura che si rigenera in ogni istante.  Ma c’è un cuore – il nostro – che non si rassegna e persevera.  E forse questo è più grande ancora.

La ricorrente classica impronta d’autore la fa da padrone tra i solchi.  Da Polvere di stelle D’amore Mariù fino alla bellissima L’attimo.  In meno di tre minuti va in scena l’ieri, l’oggi e il domani di quell’universo sospeso tra confidenza e rimpianto in un’eterna rincorsa umana al senso di ogni singolo respiro del vivere.  Racconto e musica vanno di pari passo in un gioco di sequenze spezzato dal quartetto d’archi con una magistrale variazione cinematica di taglio retrò.

Un senso di interrogazione si imprime indelebilmente e fa teneramente capolino nella successiva L’amore nell’era glaciale con una grande Amelie in veste di ospite ad arricchire il panorama sonoro, spezzandosi appena in una Il temporale che viaggia come un bossanova in staffetta con certa brillantezza anni ottanta figlia di Joe Jackson e Tears for Fears.

Un disco che non si fa mancare una varietà talora sfacciata arrivando a citare persino lo spleen minimalista di un Buchanan nella breve The Fairies’ Song, e che si chiude affiancando la luccicante romanza folk de La rosa(ancora con un magistrale Giacoia) alla finale Niente da decidere che rinnova il buon vecchio connubio tra slow jazz e canzone d’autore di ascendenza tipicamente paoliana. 

Ogni nota qui pur pesando dell’inconfondibile gusto di un commiato, sembra lasciare sempre aperta la porta della possibilità, di un nuovo inizio che è innanzitutto un giocarsi sul campo privilegiato del palco riponendo maschere, alibi e affabulazioni.  Una buona occasione per non perderselo il prossimo 14 aprile alla Salumeria della Musica di Milano nell’ambito del mini tour che percorrerà il Nord Italia.