Il nome di questo artista non dirà nulla alla maggior parte dei lettori, se non riportare alla memoria dei meno giovani il cognome (d’arte) del più famoso Cat. Ma non c’è nessuna parentela fra i due, se non il topos del viaggio, del continuo girovagare – umano e religioso quello del più anziano cantautore inglese, musicale quello del quarantenne folletto americano. 



Ogni nuova uscita dell’eccentrico musicista originario del Michigan è una sorpresa, l’invenzione di un mondo sonoro completamente differente, la sperimentazione di progetti estremamente originali per non dire balzani, come quello di scrivere un album per ognuno degli Stati uniti d’America (per ora si è fermato a due) o compilare un box di 5 cd di canti di Natale, o ancora dedicarsi ad un album schizofrenico ed elettronico come il penultimo uscito Age of Adz. 



Guardate qualche suo video live su youtube e scoprirete performance soliste in cui si accompagna solo con il banjo accanto a ensemble musicali comprendenti archi e fiati, una ventina di musicisti tutti rigorosamente indossanti delle multicolori ali di farfalla. 

Un personaggio singolare, che si dichiara cristiano, ma molto a modo suo, e che ad un certo punto della sua carriera, alla soglia dei 40 anni, decide di fare i conti con un nodo irrisolto della sua vita. “Questa non è un’opera d’arte, questa è la mia vita”, dichiara fra molte altre cose in una lunghissima intervista al sito Pitchfork. Il nodo è il rapporto con la madre che, per vari motivi legati al suo dissesto fisico e psicologico, se ne andò di casa abbandonando i figli e il padre quando Sufjan aveva un anno. Altro dato che emerge a tratti dai testi di questo album: Sufjan ed il fratello visitarono la madre in Oregon durante tre estati, quando Sufjan aveva dai 5 agli 8 anni. Infine, altro elemento importante, la madre morì di cancro nel dicembre del 2012 e Sufjan fece in tempo ad andare da lei prima che se ne andasse. 



Lo dico a scanso di equivoci: è un album disarmato e disarmante, che potrà sembrare noioso o al massimo gradevole se ascoltato come sottofondo, ma che è una lama, un frullatore che interroga e mette a nudo chiunque lo ascolti con attenzione. La profondità dei testi intreccia fatti biografici, elementi mitologici, sacre scritture, pensieri, insomma, sembra di essere in uno di quei film di fantascienza in cui trasformati in esseri minuscoli, si compie un viaggio all’interno del corpo umano. In questo caso il viaggio è nell’anima dell’artista, completamente esposta in tutti i suoi elementi, un viaggio in un dolore profondo che ancora non si era affrontato a fondo. 

La dichiarazione d’intenti è chiara fin dal primo pezzo, Death With Dignity: “I forgive you, mother”, ti perdono, madre, posso sentirti, e desidero stare vicino a te. E altrove: “avrei dovuto saperlo, il passato è passato” (Should Have Known Better). Non temo di esagerare paragonando questo artista a Leopardi e alla sua ricerca di senso, se è vero come è vero che – come dice nella già citata intervista – pur essendo vicino ai 40 anni è come se ne avesse 14, con la stessa incompiutezza tipica dell’età giovanile, dell’adolescente, non detto in senso deteriore, ma nel senso dell’età delle grandi domande. Che continuano per tutta la vita, ogni volta che fa capolino il dramma dell’esistenza. Domande che tuttavia lasciano spazio ad un candore stupito, che sa riconoscere le sorprese, come quelle di un nipote che nasce: “Mio fratello ha avuto una figlia / La bellezza che porta, illuminazione!” (sempre in Should Have Known Better).

Il punto esclamativo è un’aggiunta mia, e forse è eccessivo per un lavoro in cui il tessuto musicale è delicato, gli arrangiamenti minimalisti e legati a pochi elementi, il cantato sussurrato, come sempre nel caso di Stevens, ma in questo caso ancora più intimo. Lo ripeto: un disco che disarma chi lo ascolta con attenzione, perché fa sentire tutti compartecipi di un grande dolore, che pur in forme diverse, appartiene a tutti. Privo di qualunque inflessione retorica, il racconto della morte della madre in 4th Of July è di una leggerezza che solo i grandi possono raggiungere. Ed anche il “We’re all gonna die” (tutti dobbiamo morire) che funge da refrain insistente quanto vero, non ha la pesantezza di una condanna, ma la profondità di una domanda vera, seppur misteriosa. La domanda di tutti.