Nel 1974 un disco come “Stanze di vita quotidiana” deve essere stato un bel pugno nello stomaco per tutti. Non stupisce che Riccardo Bertoncelli, meritandosi l’immortalità ne L’avvelenata un paio di anni dopo, lo avesse stroncato definendo Francesco Guccini “uno che non ha più niente da dire” (“Guccini se ne esce fuori con un disco all’anno, ma si vede che ormai non ha più niente da dire”). Il quale gli avrebbe risposto a tono: “Tanto ci sarà sempre un pio un teorete un Bertoncelli un prete a sparare cazzate”.



Il 1974 era il cuore degli anni 70, il decennio della rivoluzione continua, il decennio delle utopie e delle ideologie, gli anni in cui se suonavi del blues eri allontanato dal palcoscenico perché suonavi “musica americana imperialista” (successo a Fabio Treves all’università Statale di Milano). I critici del pensiero illuminato e progressista stravedevano invece per il jazz, l’avanguardia, il cacofonismo sperimentale, la musica popolare e anche gli Inti Illimani (e qui ci vorrebbe la citazione da Franco Battiato, ma tanto la conoscono tutti).



Francesco Guccini era invece altrove. Era avanti. Era coraggioso e profondamente dentro il cuore dell’uomo. E aveva capito dove sarebbe finito quel decennio in anticipo su tutti.

In quel momento storico dove il privato doveva essere politico, che un artista già così venerato, che aveva fatto battere il cuore di ogni militante di sinistra con una canzone come La locomotiva durante la quale migliaia di pugni chiusi si alzavano al cielo, era irritante che lo stesso artista potesse avere l’ardire di dire basta a tutto ciò. Non solo: anche l’ardire di dire che la rivoluzione non basta a rendere felice l’uomo.



Un disco pazzesco, “Stanze”, coraggioso nei testi e anche nelle musiche. Arrangiamenti avventurosi (a cura dell’ex Equipe 84 Pier Farri), spesso anche esagerati, come a voler mettere tutto e di più dentro a una canzone, come se non ci sarebbe stata un’altra possibilità. Sì, perché i cantautori fino ad allora erano stati quelli solo voce e chitarra, dovevano cantare la rivoluzione in modo puro e duro, guai a essere anche musicisti. In “Stanze” si esagera per necessità, quella di dire per la prima volta in Italia che scrivere testi impegnati non è la sola cosa importante, conta anche la musica. E così si finì per metterci dentro di tutto: trombe, marimbe, percussioni, vibrafoni, tastiere e altro ancora. Ma considerando il caos dell’anima che esprimevano quelle canzoni, il caos musicale appare giustificato. E’ un disco unico in tutti i sensi, qualcosa mai fatto prima e mai più dopo. Un’esplosione, un’eruzione, un urlo di disperazione cosmica, nei testi e nelle musiche.

Lo stesso Guccini ricorda il caos di quelle registrazioni: «Lo incisi in situazioni psicologiche difficili. Avevo un produttore, Pier Farri, che mi sballottava da Roma a Milano senza il minimo motivo. Fu terribile. Al tempo, Pier era fissato con l’esotismo, le marimbe. Ares Tavolazzi, il bassista, se ne andò quando Pier gli chiese di eseguire “un suono giallo”… cazzo voleva dire?».

Per uno pisicologo, un’analista, sicuramente l’autore di questo disco verrebbe definito un depresso, in piena nevrosi devastante, a un passo dal suicidio. Lo sapeva bene Guccini che non aveva paura di farlo capire tra le righe: “ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi le mie domande, il mio niente, il mio male”.

Ecco, il male. E’ di questo che parlano queste canzoni. Il male di vivere? Senz’altro. Nessuno prima e nessuno dopo nella canzone d’autore si sarebbe guardato così acutamente e senza sconto alcuno allo specchio, dandone un riassunto così implacabilmente realista. Ed ecco perché in quegli anni di politica e rivoluzione e di sol dell’avvenire un disco come questo non poteva essere accettato né capito. Non lo è ancora adesso, è disturbante e disturba ancora. Probabilmente anche il suo autore lo ha rimosso. Non si possono fare canzoni così e sperare di sopravvivere. Lo stesso Guccini a poco a poco avrebbe diluito questo male cercando di allontanarsene. Già nel successivo “Via Paolo Fabbri 43” l’impatto esistenziale era minore, per scomparire quasi in “Amerigo”. Guccini avrebbe cantato nei decenni a seguire di altro e di altri, preferendo non guardare così a fondo in se stesso. Lo si capisce: ne va della vita stessa.

Eppure Guccini nel retro copertina appare splendidamente freak: capelli e barba lunga, t-shirt americana, foulard al collo, è un’icona di quegli anni, un indiano metropolitano in anticipo sui tempi. E poi era giovane: 34 anni. Ma canta come chi avesse già vissuto due, tre vite, tanto il suo sguardo umano è profondo e lucidissimo.

A fronte dei tanti cantori della malinconia, del male e dell’inquietudine esistenziale come Leonard Cohen, Nick Drake, Bob Dylan, Van Morrison, se i testi di queste canzoni fossero stati cantati in inglese, Guccini sarebbe stato osannato in tutto il mondo.

Ma per quanto legato a un immaginario leopardiano (citato anche in uno dei brani) e sartriano (la parola noia fa capolino di continuo) c’è una originalità unica in questa angoscia, fatta di appartenenza a un mondo vissuto e amato profondamente: le osterie fuori porta, le ragazze conosciute ai balli studenteschi, gli amici dell’adolescenza.  Nessuna astrazione, ma realismo autentico.

C’è soprattutto la malinconia per una bellezza intravista e anche toccata con mano e poi perduta. Nelle ragazze che se ne vanno, nei compagni di discussioni politiche, negli amici dell’adolescenza c’è qualcuno che si è incontrato e poi perduto.

E’ l’incapacità a rendere stabile la condizione di felicità quello che angoscia Guccini, ed è dunque una posizione umana positiva perché riconosce che nella vita c’è una positività. La sua rabbia si scatena quando capisce che la nostra piccolezza e miseria umana da sola non ce la fanno: che siano la politica o il lavoro o l’amicizia o l’amore.

C’è il rimpianto, per tutti quelli che hanno abbandonato le osterie di fuori porta “per età, qualcuno perché già dottore e insegue una maturità, si è sposato e fa carriera ed è una morte un po’ peggiore”.

Ogni cosa è andata: “delle rabbie antiche non rimane che un frase o qualche gesto” e lui “non ha più scuse da portare”: stare a letto il giorno dopo è forse l’unica sua meta, dice. 

Canzone della triste rinuncia annuncia quel male che poi esploderà in altre canzoni. Nel quadro nerissimo dipinto (“stare giorni interi a buttare via nel niente solo il niente, son stanco di aver detto le cose che dirò di aver già fatto le cose che farò”) c’è un barlume di auto coscienza formidabile: “non dare più la colpa al mondo o a lei per la rinuncia triste a quello che non sei”. Non sono gli altri, sei tu il responsabile della tua stessa sconfitta, della rinuncia a vivere. Non è neanche il dubbio, filosofia esistenziale di una generazione e anche più: “Credevo l’incertezza possibilità o il dubbio assiduo l’unica ragione”. E’ l’incapacità di riconoscersi: “quali scelte hai fatto in piena libertà ti muovi sempre dentro a una prigione”.

Cosa rende una persona libera davvero? Cosa lo sgancia dagli obblighi e dalle maschere rivestite per necessità? E una volta che ci sganciamo da queste maschere oppressive e siamo finalmente da soli con noi stessi, che cosa ci resta? 

Canzone della vita quotidiana porta alle estreme conseguenze questa angoscia di vita, è una esplosione incontenibile di rabbiosa disperazione. Ce n’è per tutti, ma alla fine soprattutto per noi stessi, dal momento stesso che ti alzi al mattino a quando vai a dormire, la vita quotidiana ti ha già succhiato come il caffè che bevi appena alzato. Ogni cosa è vana e senza senso, perché slegata dal tuo io, dal tuo cuore, dalle tue necessità più vere. E’ tutto un obbligo, un dovere a cui assoggettarsi, ma Guccini non  ci sta dentro. Urla per uscirne, ma non sa in che direzione rivolgersi. Le ipocrisie che regolano i rapporti quotidiani, anche quelli affettivi, anche quelli che dovrebbero essere i più sacri e salvifici sono “finzioni naturali in cui ci adoperiamo per non sembrar di essere quel che siamo”. Amori disperati, amori fatti in fretta consumati per rabbia e per dovere: Guccini non si nasconde, sputa in faccia quello che tutti si nascondono a vicenda. Finendo con la ferita più lancinante: “E poi ti trovi vecchio e ancor non hai capito che la vita quotidiana ti ha tradito”.

In tutto questo marasma c’è un momento di dolcezza, musicale e lirica. E’ la bellissima Canzone per Piero. Chi non si è riconosciuto in queste strofe di sottile e lancinante malinconia per i giorni belli dell’adolescenza? Eppure quanto feroce realismo: “Chi glielo dice a chi è giovane adesso di quante volte si possa sbagliare fino al disgusto di ricominciare perché ogni volta è poi sempre lo stesso”. Resta una incredulità davanti alla vita che non ti appartiene, ultimo barlume del riconoscimento che non siamo noi a farci, che la vita procede anche contro il nostro desiderio di volerla finita: “E poi ogni giorno mi torno a svegliare, e resto incredulo non vorrei alzarmi, ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi le mie domande il mio niente il mio male”.

La voce di Guccini in questo disco è stanca ma affascinante come non mai, sebbene si avverta talvolta un disgusto e una noia che fanno capolino, sia questo per via dei problemi relativi alle registrazioni, sia per la fatica che costa esprimere quello che esprime. Ma non c’è un verso, una parola, una sillaba che vanno perse. 

Alla fine di tutto, nella conclusiva Canzone delle situazioni differenti, c’è una risata illuminante che squarcia il velo oscuro che fino adesso ha coperto ogni brano: “Uscimmo un po’ accaldati per il troppo vino nero danzammo sulla strada, già albeggiava. Sembrava una commedia musicale americana tu non lo sai, ma dentro me ridevo”.

Trent’anni dopo l’uscita di questo disco, nel 2004, con grande sorpresa dell’autore stesso, un brano di questo disco, Canzone per Piero, veniva inserito tra i brani di letteratura del tema di maturità.  “Provo vergogna e imbarazzo. Fa un certo effetto stare lì con Cicerone e Dante” commentò Guccini.  Mica male per un autore di cui si era scritto che non aveva più nulla da dire.