Confesso che, dopo ripetuti ascolti, Shadows In The Night, l’ultimo lavoro di Bob Dylan, tributo dell’artista a dieci standard americani, tutti parte del repertorio di Frank Sinatra, suscita in me sensazioni differenti, a volte persino diametralmente opposte. 

E’ una questione che riguarda le sonorità complessive del disco, che non si adattano ad essere ascoltate in qualunque circostanza, né alle prese con qualsivoglia stato d’animo. Accade così che ci siano volte in cui le note di queste canzoni producono fascino ed emozione difficili da raccontare, ma anche altri momenti in cui si fa strada un sottile senso di noia e di disagio. Non è la voce di Dylan a produrre tutto questo, intonata e melodica come non mai, abile a giostrasi sui registri bassi e capace di sviluppare una profondità che appare davvero sorprendente per un artista che ha abbondantemente superato la soglia dei settant’anni.  



Si tratta invece della resa sonora di questi grandi classici, registrati in maniera minimale e differente rispetto agli originali. Il disco è inciso con i musicisti che accompagnano da anni l’artista americano nel suo Neverending Tour, la serie interminabile di concerti che porta l’artista americano – the performing artist, come fu intelligentemente definito tempo fa da Paul Williams –  ad esibirsi sui palcoscenici di tutto il mondo senza significative interruzioni dal 1988 a tutt’oggi. E’ lo stesso Dylan a spiegare, in una recente intervista, che il percorso creativo si è volutamente allontanato dagli arrangiamenti originali che prevedevano fino a trenta strumenti. 



Non potevamo confrontarci con quelli – spiega – e non ci abbiamo nemmeno provato. Quello che dovevamo fare era fondamentalmente arrivare al cuore di quello che rende ancora vive queste canzoni. Per farlo abbiamo preso solo le parti necessarie. In un caso come questo devi fidarti solo del tuo istinto”. “Abbiamo suonato un mucchio di queste canzoni ai soundcheck sul palco in giro per il mondo – racconta ancora – senza un microfono per la voce e si poteva sentire piuttosto bene. Di solito queste canzoni si sentono con un’orchestra completa, ma io le stavo suonando con una band di cinque persone e non si sentiva la mancanza di un’orchestra. Naturalmente un produttore che fosse venuto avrebbe detto “mettiamo degli strumenti a corda qui e i fiati là, ma io non volevo fare questo. Non desideravo neppure impiegare tastiere o un pianoforte. Una delle chiavi con cui è stato fatto questo disco era lasciare fuori il piano e fare in modo che non lo influenzasse in alcun modo”. 



Non è un dettaglio, da parte di Dylan, lasciare da parte il pianoforte, in un momento in cui questo strumento ha stabilmente preso, nei concerti, il posto della chitarra, ed affidarsi unicamente alla propria voce e ad una strumentazione, come efficacemente da lui spiegato, molto essenziale. Si prenda ad esempio il ruolo della pedal steel guitar di Donny Herron, che in tutte le canzoni svolge un ruolo consistente di supporto melodico, sostituendosi, di fatto a quello che, solitamente, é il compito che viene affidato all’orchestra: “il mio chitarrista di pedal steel – dice Dylan – è un genio in questo tipo di cose. Può suonare qualunque cosa, dall’hillbilly al bepop”. “In un certo senso è quasi come la musica folk – aggiunge ancora –, ci sono due chitarre, con una che fa solo la ritmica, il contrabbasso che suona la partitura orchestrata e pochi fiati, tutti a suonare in armonia”.

Se non fosse che, invece, questa non è affatto musica folk. O, meglio, è musica tradizionale interpretata come solo pochi – e Bob Dylan è sicuramente uno di loro – sono capaci di fare, facendola propria per farla rinascere in una nuova espressività. Quanto sia abissale la conoscenza musicale di Dylan, lo si apprende in vari passaggi della summenzionata recente intervista per “AARP The Magazine”, in cui svela, come raramente gli è accaduto in passato, i passaggi del suo percorso creativo. 

Tutti noi siamo abituati a pensare al nostro come all’erede di Woody Guthrie, o a chi ha incendiato palchi abbracciando la chitarra elettrica al posto dell’acustica per cavalcare All Along The Watchtower o una sempiterna Like A Rolling Stone, ma le origini di Dylan hanno a che fare con l’epoca pre-rock’n’roll. “All’inizio ascoltavo la musica delle big band: Harry James, Russ Columbo, Glenn Miller. Qualunque cosa venisse dalla radio e la musica suonata dove i nostri genitori andavano a ballare. Su al nord, di notte, potevi trovare queste stazioni che suonavano country, blues, i gruppi gospels (…) Una sera stavo a letto e ho sentito “Uncloudy Day” degli Staple Singers. Ed era la cosa più misteriosa che avessi mai sentito, Come la nebbia che sale. L’ho riascoltata, forse la sera dopo, e il suo mistero s’è ancor più infittito. Com’è possibile fare una cosa del genere? Mi ha attraversato il corpo come se fosse invisibile”.

Ecco, allora, con che cosa abbiamo a che fare quando, ancora oggi, ascoltiamo la musica di un disco, uno qualunque, di Bob Dylan, o assistiamo ad uno dei suoi show, pur avendo in mente anche le decine di concerti degli anni passati, visti o ascoltati su vecchi dischi fruscianti o sulle splendide edizioni delle Bootleg Series, edite, da qualche tempo a questa parte, dalla Sony. Il punto non è confrontare come suoni “That Lucky Old Sun” su Shadows  In The Night rispetto a quando lo stesso pezzo veniva eseguito nelle arene americane con Tom Petty e gli Heartbreakers, nella seconda metà degli anni ottanta. O di quanto sia meglio il Dylan che canta con uno stile folk, rock, o con quella modalità da crooner a cui ci ha abituato negli ultimi tempi. La questione decisiva è, invece, riappropriarsi della musica come Dylan non ha mai smesso di fare lungo tutto il corso della sua carriera, anche quando si è preso i fischi di chi non capiva che passare da una modalità espressiva ad un’altra non era tradire lo spettatore di fronte, quanto, piuttosto, renderlo partecipe di un desiderio di rimettersi in gioco ogni volta, in risposta ad un bisogno esistenziale che ha a che fare con la verità di fronte a se stessi ed alla vita.

Varrebbe la pena di ascoltare ogni nuovo disco di Dylan anche solo per provare a compiere questo tipo di percorso. Fare come dice lui, osservare queste canzoni, identificarci con esse ed entrarvi senza finzioni: “se vuoi fingere, vai avanti, fingi se vuoi. Ma io non sono quel tipo di cantante”. Solo così potrà accadere qualcosa di speciale. Che un un mazzo di canzoni giunga ad attraversare il nostro cuore per raggiungerlo nel più profondo, laggiù dove abita il bisogno di felicità. A patto, però, di essere sinceri con se stessi quanto basta per mettersi davvero in discussione. Perché “per essere un fuorilegge – direbbe ancora lui – devi essere onesto”.