Grande attesa per la prima, alla presenza del Capo dello Stato in un teatro straboccante in ogni ordine di posti, della nuova produzione di Lucia di Lammermoor  di Gaetano Donizzetti,. E’ opera molto rappresentata a Roma ma questa edizione nasce da un progetto di Luca Ronconi, deceduto dopo lunga malattia proprio mentre stava per iniziare le prove. E’stato realizzato dai suoi collaboratori storici: Gianni Mantovanini (luci), Gabriele Mayer (costumi), Margherita Palli (scene), Ugo Tessitore (regia). Ma è difficile dire quanto dell’assunto originale sia stato effettivamente attuato. Pure in quanto Ronconi non aveva mai affrontato questa opera in precedenza.



Indubbiamente, il concetto di base è chiaramente dell’ultimo Ronconi, sempre più introspettivo; Lucia è malata di mente sin da quando si alza il sipario e le vicende familiari e coniugali la portano alla pazzia suicida ed omicida. E’ anche ronconiana l’idea di trasferire l’azione dalle brume, dai castelli, dai laghi scozzesi di inizio ottocento ad un maniconomio-prigione di fine ottocento. E’ pure ronconiano il rigoroso bianco e nero di scene e costumi (in nero gli uomini, in bianco le donne, tranne Lucia nel primo atto a ragione del lutto per la morte della madre). Occorre dire che non tutte queste idee sono nuove: ricordano molto le messe in scena, principalmente a Firenze, di Lev Dodin, del grande repertorio russo negli Anni Ottanta, ma Dodin aveva una non troppo sotto intesa intenzione di mostrare la Russia come una prigione-manicomio. Ronconi , invece, accentua la patologia di Lucia Tuttavia, l’attenzione alla recitazione pare carente, e dovrà essere migliorata, nelle repliche e nelle riprese (se la produzione, come pare si intenda, entra in repertorio). 



Tratta da uno dei romanzi storico-romantici dello scozzese Walter Scott, di cui La Pléiade ha appena pubblicato la collezione integrale (anche se in Italia è noto solo per le edizioni hollywoodiane e televisive di “Ivanohe”, messa in musica, tra l’altro, in un ‘centone’ di Gioacchino Rossini rappresentato alcuni anni fa al festival di Martina Franca), Lucia rappresenta un anello di transizione essenziale dal melodramma di inizio Ottocento a quello verdiano. Da un lato, l’orchestra evoca l’atmosfera delle brume scozzesi in un notturno quasi infinito (al pari di quanto avviene nel capolavoro rossiniano ispirato ad un altro lavoro di Scott, La donna del lago). 



Da un altro, le parti vocali richiedono grande maestria: vennero scritte per Gilbert-Louis Duprez, il tenore che ha inventato il “do di petto”, Fanny Persiano, un soprano, al tempo stesso, dalla vocalità leggera e dalla coloratura raffinatissima, e Domenico Coselli, baritono agilissimo. ‘Lucia’ è un apologo di potere bruto che vede protagonisti uomini guerrieri coinvolti in continue violenze e questo stesso mondo di violenza maschile opprime, schiaccia l’innamorata Lucia, appena orfana di madre, salvata dall’amato Edgardo da un letale violento toro. L’apologo del potere è ben presente nella drammaturgia ronconiana del lavoro, ma l’atmosfera delle brume scozzesi in un notturno quasi infinito resta in orchestra

Molto buona, la parte musicale che include la riapertura di alcuni tagli di tradizione(che hanno consentito di far sì che il prete Raimondo sia un personaggio a tutto tondo) e l’utilizzazione della  Glasharmonika (armonica a bicchieri) come prescritto da Donizzetti. Nonostante qualche sbavatura nel primo tempo, Roberto Abbado tiene bene l’equilibrio tra buca e palcoscenico. Di grandissimo livello i due protagonisti, Jessica Pratt e Stefano Secco, tengono ben testa agli interpreti originali del debutto parigino dell’opera. Grande cura anche nella scelti di ruoli considerati ingiustamente minori ed affidati a Carlo Cigni, Simge Büyükedes e Andrea Giovannini . Enorme successo alla ‘prima’ dedicata alla memoria di Ronconi.