All’inizio si vede una croce di legno, malandata e persa in mezzo ai campi del reggiano. Poi c’è un uomo che va a ritirare un grosso pacco e si mette nel soggiorno di casa, con moglie e figlia che visibilmente emozionate, aprono e si mettono ad esaminarne il contenuto che altro non è che il monumentale cofanetto celebrativo dei trent’anni dei CCCP, uscito qualche anno fa, con la ristampa in vinile di tutta la loro discografia e un bel po’ di chicche interessanti per i collezionisti. 



Quell’uomo è ovviamente Massimo Zamboni e nella scena successiva lo vediamo entrare con altre cinque persone nell’appena ristrutturato Teatro Comunale di Gualtieri. Si guardano attorno ammirati dalla suggestività dell’ambiente, posano gli strumenti e cominciano ad organizzarsi per le prove. 

Quelle persone sono ovviamente i CSI o meglio, i Post-CSI, come hanno deciso di chiamarsi nel momento in cui, ricomposte le fratture del passato e tornati a calcare i palcoscenici con la formazione originale, è divenuto chiaro che Giovanni Lindo Ferretti non sarebbe stato della partita.  



Dopo una serie di date live che avevano messo in chiaro quanta voglia ancora ci fosse di questa band in giro per l’Italia, il chitarrista fondatore ha riunito i suoi compagni per scrivere nuovo materiale, per la prima volta dopo quasi vent’anni dall’ultimo disco di inediti, quel “Tabula rasa elettrificata” che tante speranze aveva acceso riguardo ad una maggiore diffusione commerciale  del rock indipendente. 

“Breviario partigiano” non è il nuovo disco dei CSI. Innanzitutto non potrebbe mai esserlo: senza Ferretti, volenti o nolenti, stiamo parlando di un’altra cosa e da questo punto di vista l’inserimento del suffisso “Post” si configura come una decisione più che saggia. In secondo luogo, dopo tutto questo tempo, dopo tutte le incomprensioni, penso che quasi nessuno si sarebbe aspettato niente di più di qualche concerto all’insegna della nostalgia e della celebrazione dei bei tempi andati. 



Ma siamo alle soglie del settantesimo anniversario del 25 aprile e quale occasione migliore di scriverci sopra qualcosa per un gruppo che ha sempre avuto l’esperienza della guerra partigiana nel proprio DNA? 

“Breviario partigiano” non è, contrariamente a quanto il titolo potrebbe far pensare, un tentativo di sacralizzare ulteriormente quanto è già stato abbondantemente sacralizzato e innaffiato di retorica negli anni passati. 

Vero che i nostri vengono da Reggio Emilia, che è una città che ha sempre avuto una certa confidenza con chi guerreggiava sui monti tra il 43 e il 45 (ma poi, come ricordano sempre gli Offlaga Disco Pax, a Cavriago c’è ancora una statua di Lenin nella piazza principale, l’unica in tutta Europa ad essere ancora in piedi). 

No, questa volta si parte da Massimo Zamboni e la sua non è una storia che sia facile da raccontare. Il 29 febbraio 1944 suo nonno paterno fu ucciso con quattro colpi di rivoltella da tre uomini che lo assalirono alle spalle per poi dileguarsi sulle loro biciclette, prima che il fratello avesse tempo di rispondere al fuoco. 

Una storia come tante, verrebbe da dire, in un periodo in cui i regolamenti di conti e le uccisioni sommarie erano praticamente all’ordine del giorno e andarono avanti ben oltre la fine della guerra. 

Il problema è che Ulisse Zamboni era uno squadrista di un certo livello, membro fedele del Partito Fascista sin dalla prima ora e che a sparare furono membri dei GAP, i “Gruppi di Azione Patriottica”, che erano una sorta di forza speciale delle truppe partigiane, operanti in segreto nelle retrovie, addetti a sabotaggi, attentati, e a qualsiasi altra opera volta alla debilitazione del nemico. 

 

Lo ha sempre saputo, Massimo, che entrambe le famiglie da cui nacquero i suoi genitori erano di fascisti convinti. Anche per questo, probabilmente, ha abbracciato il comunismo, non solo perché se nasci a Reggio Emilia è davvero difficile fare altro. 

Con gli anni, i figli, le esperienze, tutto acquista però un peso diverso e allora è comprensibile che sia venuta la voglia di tornare indietro, di vederci più chiaro in una vicenda che ha soprattutto lasciato in lui una grande mancanza e che nel frattempo aveva suscitato sempre più domande. 

Nasce così “L’eco di uno sparo”, il libro pubblicato da Einaudi che racconta la vicenda di Ulisse Zamboni e che, contemporaneamente, getta luce su una vicenda che avrà anche dato un qualche motivo di vanto al nostro paese, ma che rimane tuttavia una ferita aperta e sanguinante, difficilmente rimarginabile anche oggi, pur con la stragrande maggioranza dei protagonisti ormai scomparsa. 

“Breviario partigiano” parte da qui e dal bellissimo documentario di Federico Spinetti di cui vi abbiamo raccontato l’inizio, e che ci conduce ben in profondità nella lavorazione del progetto e nel racconto di tutto quel che è venuto fuori da quel 29 febbraio. 

C’è Zamboni davanti al monumento dei caduti per la libertà al parco della Ghirlandina nei pressi di Modena (non sono esattamente sicuro che sia quello, in verità, nel filmato non viene detto), quello con tutti i volti dei caduti, che ha ispirato la canzone “Guardali negli occhi”. È qui che probabilmente vengono spese le parole più coraggiose del chitarrista: “Il torto e la ragione potevano anche essere chiari – dice pressappoco – ma non può bastare, non ci si può fermare qui. Era facile identificare il tedesco come il nemico ma era ben altra cosa quando la persona che ti trovavi a combattere parlava la tua stessa lingua, il tuo stesso dialetto. E poi non si può neanche tirare in ballo la causa della libertà. Perché tanti di quelli che combattevano, la causa nazionale non sapevano neppure cos’era. Ciascuno aveva una sua particolare ragione per combattere, era una questione privata, come dice Fenoglio”. 

 

Già, Fenoglio. L’autore de “I quaranta giorni della città di Alba” e soprattutto de “Il partigiano Johnny”, il romanzo capolavoro e incompiuto che racconta il volto più tragico della Resistenza; un romanzo che, manco farlo apposta, è sempre stato trattato con diffidenza in seno a quegli ambienti che pretendevano di vedere in quel periodo solo una guerra degli eroi liberatori contro i nemici invasori. 

Ma del resto uno come Ferretti, che pure non ha mai nascosto la sua fede politica, Fenoglio l’ha sempre apprezzato, citandolo esplicitamente in “Linea Gotica” e dedicandogli un intero spettacolo nel 1998. 

Ma non c’è solo lui. “Il nemico”, prima traccia inedita dopo più di 15 anni di quel che resta dei CSI, si apre con le celebri parole di Cesare Pavese, quelle tratte da “La casa in collina”, dove dice che: “Ora che ho visto cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: ‘E dei caduti che ne facciamo? Perché sono morti?’ Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”

Non è una categoria nuova, quella di “guerra civile”: tra gli storici, lo aveva già detto Claudio Pavone, che aveva intitolato così un suo fondamentale lavoro uscito nel 1990. Una definizione però molto difficile da accettare, che negli anni è stata tacciata di “revisionismo” e quasi scomparsa a favore della più blasonata (e del resto non completamente falsa) di “guerra di liberazione”. 

I libri di Giampaolo Pansa, usciti all’inizio degli anni duemila e dedicati alle vendette sommarie e alle violenze partigiane nel cosiddetto “Triangolo della morte”, alcune di esse con strascichi ben oltre la fine della guerra, hanno poi caricato il dibattito di un furore che non è nuovo per l’Italia, un paese che non è mai riuscito a fare i conti fino in fondo con il proprio passato. 

 

Oggi Zamboni ritorna a parlare di guerra civile attraverso la sua storia e attraverso le parole di Pavese e lo fa coraggiosamente, all’interno di una band che ha avuto il nome più ideologicamente connotato di tutto il rock europeo, proveniente da una delle zone più “rosse” di tutto il continente e che aveva già provocato un bel vespaio anni fa, quando il proprio leader carismatico Giovanni Lindo Ferretti aveva annunciato la sua conversione al cattolicesimo. 

Era suonata come un’apostasia, in molti si sono indignati, qualcuno gli ha anche tolto il saluto, ma a ben vedere era suonata perfettamente in linea con la complessità del personaggio e la profondità dell’uomo, tanto che dei suoi compagni di band non si è stupito proprio nessuno. 

Del resto i CCCP/CSI, pur precisamente collocati, non sono mai stati ideologici. Si sono confrontati con la proposta di Zamboni in modo aperto e sincero, ma senza per questo censurare le durezze delle divergenze: c’è un pezzo, nel film, in cui lui e Giorgio Canali (uno di cui si può dire tutto tranne che sia moderato) raccontano di un diverbio avuto la sera prima in merito all’attuale significato e valore del 25 aprile, e si capisce che devono essere volate parole grosse. 

Ciononostante, “Breviario partigiano” viene fuori dalla collaborazione di tutti loro, al punto che vederli nel teatro di Gualtieri, a improvvisare note e ad assemblare le idee per il nuovo pezzo, oltre a costituire un’esperienza molto interessante, dice molto di più di mille discussioni. 

 

Venendo a toccare i contenuti più puramente musicali (perché soprattutto quelli contano, alla fin fine), si può dire che questo disco è essenzialmente la documentazione del fatto che Massimo Zamboni, Francesco Magnelli, Gianni Maroccolo e Giorgio Canali hanno deciso che il loro futuro insieme può continuare anche fuori dai palchi. Alla voce c’è Angela Baraldi, come era anche giusto che fosse, dato il lunghissimo rapporto personale e artistico che la lega agli altri quattro. 

Ci sono cinque brani registrati in studio: due sono nuove versioni di vecchi pezzi di Zamboni e della Baraldi (“Vorremmo esserci”, “In rotta”), tre sono nuovi e costituiscono ovviamente il punto dove tutti aspetteranno al varco la band.

 

È difficile, se non impossibile, esprimere valutazioni coerenti e affidabili dopo tutti questi anni e avendo così poco materiale a disposizione. Resta che “Il nemico” ha delle armonie veramente efficaci e una linea vocale calda e profonda, con Angela che compie un lavoro egregio dietro al microfono.

E il loro suono, dopo tutto questo tempo lo si sente ugualmente ed è una nota di merito il fatto che, pur mantenendosi fedeli a questa impronta, abbiano voluto comporre qualcosa che fosse fresco e attuale, senza scadere nella ripetizione di schemi già sentiti. 

“Senza domande”, da questo punto di vista, è più scontata, ma ha un andamento in crescendo e un’esplosione nella parte centrale che la rendono un gran pezzo. 

Da ultima, “Breviario partigiano” rimane l’episodio più articolato, con i suoi arpeggi iniziali, la voce calda di Angela, le parti narrate di Zamboni e un finale delizioso dove abbondano i fiati e si respira un’aria tipicamente popolare. 

È forse questo il momento in cui si avverte maggiormente che questa band può avere un futuro e ha le capacità per poter scrivere un nuovo corso, anche senza l’apporto del suo storico leader. 

I tre pezzi live ne sono un’ulteriore dimostrazione: “Guardali negli occhi”, “Linea Gotica” e “Cupe Vampe” (quest’ultima è la sola a non trattare esplicitamente il tema partigiano ma trattando della guerra civile jugoslava, il collegamento è evidente) vengono rese benissimo, suonano potenti e Canali, la Baraldi e Zamboni si dividono le parti cantate con grande naturalezza. 

A chiudere il tutto, c’è “29 febbraio”, che altro non è che il breve racconto fatto da Massimo delle vicende narrate ne “L’eco di uno sparo”. Una delicata base di tastiera, la sua voce che evoca gli accadimenti e le sensazioni di quel giorno, una vago e istintivo sentore di Massimo Volume (inevitabile, quando si sceglie questa forma), un incentivo irresistibile a vedersi il documentario e ad andarsi a comperare il libro. 

 

“Breviario partigiano” verrà presentato dal vivo proprio il 25 aprile, nel parco della Memoria di Correggio. Sarà una bella occasione per riflettere sul significato di una data che ancora oggi suscita polemiche e che ancora non è riuscita a rappresentare la celebrazione della ripartenza di un paese dopo la catastrofe bellica. 

È solo un disco, alla fine, ma se ci provocherà a non chiudere la ferita e a continuare a farci domande, allora sarà davvero anche un bel gesto di memoria.