Non tutte le storie rock sono storie di successo, anzi. Ma il mancato successo non è sinonimo di scarsità artistica, esattamente come i primi posti in classifica non significano automaticamente essere un bravo autore di canzoni o un buon interprete. Tutt’altro. Le storie rock sono fatte di momenti, imprevedibili svolte, fortune o sfortune. Non solo: chiunque pensi che una buona recensione serva a lanciare al successo un artista, dovrà ricredersi dopo aver letto questa storia. 



I Big Star infatti non hanno ricevuto soltanto un paio di buone recensioni: sono riusciti ad esibirsi davanti a un centinaio dei migliori scrittori rock d’America tutti in una volta e ad esaltarli tutti, uno per uno. Ma il successo è rimasto una chimera, e la loro breve storia è finita con un incidente mortale d’automobile e una lenta ma implacabile decadenza mentale. Gli elementi per fare di quella dei Big Star una storia unica e allo stesso tipicamente rock ci sono tutti, inclusa la morte di uno dei due leader, Chris Bell, alla fatidica età di 27 anni, quella del “club dei 27” (Jim Morrison, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain…).



Ma soprattutto, nel breve spazio di tempo che i Big Star sono esistiti (tre dischi più una improbabile reunion) ci hanno lasciato uno sfracello di bellissime canzoni e un genere musicale che ha influenzato dozzine di gruppi rock, alcuni dei quali tra i più amati e seguiti di sempre.

I Big Star, gruppo di ragazzi bianchi, partirono male sin dall’inizio, ma non per colpa loro. Nati a Memphis, la città di Elvis, finirono nel rooster di una delle massime etichette di musica di colore, la Stax, quella di, fra gli altri, Rufus Thomas e Otis Redding. Furono un tentativo in un momento di crisi di trovare nuove vie commerciali di puntare sul rock giovane e bianco, ma non andò così. A mettere insieme il gruppo agli albori degli anni 70 un ex ragazzo prodigio. Alex Chilton, che aveva ottenuto un successo da quattro milioni di dischi venduti nel 1967 con il singolo The Letter. Lui era la voce dei Box Tops. Dopo questa breve stagione insieme ad altri ragazzi di Memphis (Chris Bell, il batterista Jody Stephens e il bassista Andy Hummel) dà vita ai Big Star. Gli ingredienti ci sono tutti: Bell e Chilton vivono una primavera compositiva spumeggiante, scrivono brani perfetti pieni di esuberanza giovanile, amore per le melodie corali stile Beatles, usano uno stile chitarristico fresco e innovativo, hanno una sezione ritmica che non sbaglia un colpo. In seguito la loro musica power pop verrà definita, un pop accattivante su deflagranti ritmi e riff rock, un genere che negli anni 70 avrà dozzine di epigoni tutti baciati, a differenza degli inventori, del successo di massa.



La capacità di scrivere canzoni infuse di malinconia e momenti riflessivi, nonostante le bordate rock, influenzerà in seguito moltissimi band, due su tutte, i Rem e i Replacements.

Già il nome che si danno esprime la loro ambizione: Big Star, la grande stella. Il titolo del primo album, “Number One Record”, lo fa altrettanto, peccato che non sarà mai un disco numero uno. Ma il disco è bellissimo. Da una parte brani rock che non lasciano prigionieri (come In the Street, che negli anni Duemila diventerà la sigla della fiction televisiva That Seventies Show; l’intensa e a sprazzi psichedelica The Ballad of El Goodoo; la nevrotica e schizoide Don’t Lie to Me), dall’altra ballate acustiche ricche di dolcissima mestizia, il capolavoro di Thirteen, che ben sei anni prima di Neil Young contiene il verso profetico: “Rock’n’roll will never die”. Il successo? Manco a parlarne.

Frustrato, Chris Bell lascia il gruppo, anche se collabora a diversi pezzi che due anni dopo nel 1974 finiranno nel secondo album del gruppo, “Radio City”. Chris Bell finirà presto nella depressione, pubblicando solo un 45 giri nel 1978, contenente però due autentiche gemme, segno del suo genio incompreso, i brani You and Your SisterI Am The Cosmos. La sera del 27 dicembre 1978 Chris Bell, al volante della sua vettura sta tornando a casa dopo una seduta di registrazione. Per qualche motivo l’auto sbanda e finisce contro un palo della luce. Il palo casca e schiaccia la vettura uccidendo Bell sul colpo. Il funerale si tiene il giorno dopo, 28 dicembre, giorno del compleanno dell’amico Alex Chilton, segno del legame misterioso che li aveva uniti. 

I Big Star rimasti in tre invece tornano in studio e pubblicano il secondo disco nel 1974. Per qualche bizzarro motivo, nello stesso periodo qualcuno si inventa il primo (e anche unico) festival dei giornalisti rock proprio a Memphis. Due giorni di scazzi, inutili discussioni e tanto alcol, in cui i Big Star vengono chiamati a esibirsi. Sarà un trionfo, condito di recensioni entusiastiche. Purtroppo l’accordo di distribuzione che la Stax ha da poco firmato con la potentissima Columbia Records naufraga quando il presidente di questa, Clive Davis, affonda in uno scandalo a base di tangenti. Ogni accordo da lui preso viene sospeso, inclusa la distribuzione del disco dei Big Star che nessuno, o quasi, comprerà. Ce n’è abbastanza, nonostante tentativi promozionali come una esibizione al prestigioso Max Kansas City di New York, per fermarsi qui. Eppure anche “Radio City” era un disco bellissimo, un pezzo su tutti, September Gurls.

Nel 1975 da solo con il batterista Jody Stevens, Chilton registra materiale per un terzo disco con la produzione del leggendario Jimi Dickinson. E’ un disco contorto e oscuro, pur con qualche richiamo al vecchio sound, segno di una depressione che si sta facendo strada anche in lui. Non verrà pubblicato, ma stampato e distribuito in sole 250 copie promozionali. Dentro, un brano epico, segno del genio ancora vivo in Chilton, la debordanteHolocaust e una splendida ballata tipicamente nel segno dei Bg Star migliori, Thank You Friends. Dopo la morte di Bell, con il titolo di “Third/Sister Lovers”, il disco verrà pubblicato come una sorta di tributo all’ex compagno scomparso, ma ancora una volta sarà un insuccesso.

Negli anni Chilton prenderà strade secondarie, interessandosi alle nuove sonorità punk e new wave, mostrando anche segni di schizofrenia non indifferente. I Big Star torneranno con una nuova line up a fianco di Chilton e Stevens nel 1993 e nel 2005 pubblicheranno anche un nuovo disco, “In Space”, ma questa è un’altra storia. Mentre il mondo del rock riscopre con colpevole ritardo la grandezza di questa band, mentre i Mike Mills e Peter Buck, Paul Westerberg e anche le Bangles cercano disperatamente i loro vinili in ogni negozio di dischi, Alex Chilton vive facendo il lava piatti o il giardiniere.

Il 17 marzo 2010 Alex Chilton è vittima di un attacco cardiaco. Muore poco dopo il ricovero in ospedale. I Big Star dovevano esibirsi nella stessa settimana al prestigioso SXSW Music Festival ad Austin.  Ci sarà invece una serata tributo in memoria di Chilton e della musica dei Big Star. Sul palco Jody Stevens e il bassista originario Andy Hummel circondati da un grosso numero di amanti del gruppo tra cui il bassista dei Rem Mike Mills. Il 9 luglio dello stesso anno muore per un tumore anche  Andy Hummel.

Oggi i Big Star hanno tutti gli onori e le lodi che hanno sempre meritato, riscoperti continuamente da nuove generazioni. Peccato solamente che dei quattro che erano siano morti in tre. Nelle foto di inizio della loro avventura, i quattro appaiono straordinariamente belli, tipici ragazzi americani con il sorriso e il sogno americano stampato sul viso. Davanti a loro sembra esserci una strada gloriosa che invece non ci sarà mai. 

Considerati oggi – giustamente – uno dei gruppi più seminali di tutti i tempi, capaci di influenzare generazioni di artisti e inventori di un vero e proprio genere, il power pop, non riuscirono mai a sfondare nei gusti di massa, nonostante non ci fosse giornalista della stampa musicale americana che non li lodasse. E poi dicono che le recensioni fanno vendere…

 

Questa storia l’abbiamo racconta in occasione della pubblicazione in queste settimane del cd + dvd “Big Star: Nothing Can Hurt Me”. Contiene su un unico cd i primi due dischi della band, liner notes scritte appositamente da Mike Mills dei Rem e il dvd contenente il film omonimo uscito in America nel 2012. E’ un documentario ricco di fascino, con le testimonianze di Stevens e Hummel e di tutti coloro che nel corso degli anni hanno lavorato con i Big Star così come dei loro illustri fan, da Mike Mils a Evand Dando fra gli altri. Diretto da Drew DeNicola,”Big Star: Nothing Can Hurt Me”  è un tesoro per i fan, la cronaca  di quegli anni fino allo scioglimento e la successiva rivalutazione critica, con rarità musicali, immagini inedite ed interviste ai membri originali della band ed a familiari, amici ed artisti che non hanno mai nascosto la più pura ammirazione per il quartetto di Memphis.Non ci sono molte parti musicali, anche se ci sono spezzoni girati in studio mentre registrano, ma questo serve a sottolineare ancora il fascino oscuro e nascosto di una storia che, contrariamente al mito americano che vuole che ogni persona abbia diritto al successo, ha visto per protagonisti dei beautiful loser, dei meravigliosi perdenti. Ma anche questa è una storia americana.