Ci sono momenti in cui la storia ti chiama e devi rispondere ‘presente’. Non basta che tu sia il migliore: lo devi anche dimostrare. 

Pensieri come questi devono essere passati certamente per la testa di un ragazzo di 31 anni che ha da poco pubblicato The River, quinto album in studio, addirittura doppio, a testimonianza della irripetibile vena creativa di quegli anni (del tutto paragonabile alla prolificità del miglior Bob Dylan).



Springsteen è ormai artista affermato: ha finalmente sfondato con Born to run (oltre 15 milioni di copie vendute) e Darkness on the edge of town (album della consacrazione definitiva). Sta finalmente raggiungendo il successo faticosamente cercato e anche l’America, ormai, comincia a stargli stretta: serviranno comunque un album ‘commerciale’ (come Born in the Usa, nell’accezione positiva del termine) e un calibrato restyling di immagine (iniziando a organizzare i concerti nei grandi stadi) per decretarne il successo planetario (grazie a Dio anche in Italia, a San Siro) pochi anni dopo. 



Le tre sere di fine 1980 (28-29 e 31 dicembre) sono teatro di altrettanti concerti leggendari a New York. La location è il Nassau Veterans Memorial Coliseum di Long Island, palazzetto da poco meno di 20.000 posti che ormai non bastano già più per Bruce la E Street band. 

Elvis ha già suonato qui nel 1973 e adesso tocca all’allievo superare il maestro.

La cornice di pubblico (in delirio, come testimoniato anche dalle registrazioni) in tre sere fa segnare, come prevedibile, il tutto esaurito non appena si rendono disponibili i biglietti per gli show.

Non siamo lontani da ‘casa sua’ nel New Jersey e Bruce ha già provato l’emozione forte di esibirsi al Madison Square Garden poco tempo prima.



Già nelle serate del 28 e 29 Bruce e la E Street band distruggono ogni riferimento conosciuto di un concerto rock da quelle parti. I primi due concerti sono memorabili (in questi una stupenda Factory, la prima sera, e Incident la seconda, le quali, se non sono le migliori versioni di sempre, poco ci manca).

Ma è soprattutto la sera del terzo, il 31 dicembre, vigilia di capodanno, in cui si compie una delle tappe epiche della carriera di Springsteen, con un concerto di oltre quattro ore, passando per lo scoccare della mezzanotte (con Auld Lang Syne strumentale, giusto per gli auguri).

La E Street Band suona a livelli pazzeschi, nella formazione storica con ancora Danny Federici e Clarence Clemons, mai troppo compianti, e Little Steven che ancora non ha lasciato Bruce (e per fortuna poi ci ripenserà) per seguire la carriera solista. 

La voce e lo stato di grazia di Springsteen forse non si apprezzeranno mai più così inarrivabili come in questi anni e come in questa occasione in particolare. C’è energia e passione, intimità e coinvolgimento. E c’è una sequenza di pezzi forse mai più così assortiti in un’unica occasione con tale qualità di esecuzione, benché in questi anni tutte le setlist di Springsteen siano a livelli allucinanti.

Il concerto è ora finalmente disponibile sia su supporto mp3 che ad alta definizione dal sito ufficiale o su un triplo cd che uscirà a fine mese ma non nei negozi, acquistabile solo tramite il sito ufficiale, con audio finalmente degno di questo nome, dopo che per anni ne sono circolate registrazioni amatoriali con la qualità tipica dei mezzi con cui venivano effettuate: ‘bootleggers, roll your tapes!‘, come talvolta si lasciava sfuggire Bruce sul palco, rivolto ironicamente a chi non riusciva più a stargli dietro mentre cambiava le cassette dai registratori.

Questo concerto, dicevamo, blocca il tempo in un istante in cui la storia di Springsteen e della E Street band, anche se si fosse fermata di lì a poco, sarebbe stata immortale.

Si parte con Night: perché questa deve essere ‘la’ notte e lo sarà. Si prosegue con Prove it all Night(stratosferica, giusto per far capire fin dall’inizio cosa ci aspetta), Spirit in the night (pezzo pressoché fisso di questi anni) e la ruggente Darkness on The edge of town in rapida sequenza, con l’urlo finale che, come sempre, fa impallidire la versione del disco da studio. Bruce in questa serata è un fiume in piena, invincibile e incrollabile: scherza col pubblico come nelle sere più ispirate ma riesce anche stringerlo in un abbraccio che è il suo tratto distintivo; e anche sotto questo profilo non ha rivali (la Thunder Road di questo concerto ne è uno degli esempi più evidenti, con Springsteen quasi emozionato dal sing-along del pubblico).

Del resto non siamo ancora ai tempi di Born in The Usa, nei quali la presenza sul palco, se possibile, si farà un po’ più ‘granitica’ e meno incline ai monologhi.

C’è spazio anche per i tributi: dai Creedence Clearwater Revival di Fogerty (da sempre ispiratore di Bruce) conWho’ll stop The rain, che sembra nata per essere eseguita in questo modo tanto è perfetta, a This Land is your Land, prima apparizione (in questi tre concerti) della celebre cover di Woody Guthrie, per finire con In The midnight hour di Pickett, all’approssimarsi del capodanno, con countdown annesso, oltre alle due ‘cover natalizie’ Merry Christmas Baby e la più volte riproposta Santa Claus is coming to town.

The promised land, suo pilastro in ogni concerto da qui ai futuri, è cantata con la convinzione di chi sembra essere arrivato all’ultimo pezzo della sua vita; è senza dubbio la versione più abbacinante mai pubblicata ufficialmente fin qui.

Non è un caso che segua a This Land is your Land; sembra essere la risposta a Guthrie per dirgli ‘tu mi hai detto che questa America è fatta per noi; io ancora non lo accetto ma ci crederò fino all’ultimo’.

E siccome siamo nel tour di The River, gran parte dello show è impreziosito, in ordine sparso, oltre alla title track già ‘misticamente malinconica’ dal vivo, da Independence DayOut in The street e Hungry Heart (due pezzi di sicuro rendimento live, come si intuirà presto), Sherry Darling (che sembra non volersi fermare mai),Cadillac RanchYou can look (but better not touch!), Wreck on The HighwayRamrodTwo hearts e una delicatissima (e non così frequente) Fade Away. Ma tra i pezzi di questo album una citazione speciale meritaThe Price you pay, senza dubbio una delle più belle composizioni di Bruce, che troverà rarissimo spazio, ingiustamente, nei suoi concerti. 

In questa occasione viene eseguita nella versione originaria, quella che prevedeva una strofa in più: ‘Some say: forget the past; some say: don’t look back.  But for every step you take, you leave a track. And though it don’t seem fair, for every smile that breaks a tear must fall somewhere, oh the price you pay‘. Il perché non sia stata inserita questa strofa nella versione definitiva, che se possibile la rende ancora più unica, è uno dei tanti ‘misteri della fede’ di Springsteen.

Debutto assoluto per Held up without a gun, proprio nella versione che comparirà (o meglio: è già comparsa) nella raccolta The essential, nel terzo cd di inediti e live.

Ci sono anche Fire (per lui ‘solo’ un b-side, incredibilmente), una stupenda Because The Night, che straborda in una cavalcata potentissima, Thunder Road (una delle migliori performance di sempre), Racing in The street eJungleland (ciascuna delle quali varrebbe da sola il prezzo del biglietto, ogni volta; la seconda è la migliore versione di sempre, oltre le normali percezioni umane); ci sono poi le onnipresenti Born to run Badlands,Candy’s room4th of july (versione da brividi, anche questa), il trascinante Detroit Medley (pur sempre da ascrivere alle cover), una (ancora) inedita Rendezvous, oltre all’impareggiabile Rosalita, prima canzone dell’allora nuovo anno. 

Una sequenza irripetibile e incredibile (alla fine quasi quaranta pezzi), in cui c’è davvero il meglio di quello che un concerto di Springsteen può esprimere. 

Chiusura con Raise Your Hand: e, appunto, alzi la mano chi non scommetterebbe che, fosse stato solo per lui, il concerto non sarebbe potuto durare altre quattro ore!

Per colui che ha ‘trovato la chiave dell’universo nel motore di una vecchia auto parcheggiata’ (dalla sua Growin’ up), non doveva essere poi così difficile far capire perché, da questi concerti in avanti, non ci sarebbero stati più dubbi su chi fosse il miglior performer live della storia del rock.

Se ancora non era stato appena chiarito, questo concerto lo certifica in maniera assoluta, così come peraltro si era avuto modo di intuire dalle molte esecuzioni che già erano finite nel ‘Live 1975/’85’. 

Non più solo ‘il futuro del rock and roll’ ma il più grande di tutti, persino oltre Elvis, ormai. Perché Bruce e la E Street band non hanno mai avuto fretta di arrivare: in fondo basta essere nati per correre e non fermarsi mai.