Se è vero come è vero che è meglio catturare subito l’attenzione, la sparo subito grossa e non se ne parli più. I primi ascolti di Wilder Mind, nuovo lavoro dei Mumford & Sons sono stati un’esperienza simile a quando vedemmo Michael Jordan giocare a baseball. Ma non potendo qui cavarmela solo con una battuta da bar – con tutto il rispetto per i bar – cercherò di argomentare un filo più compiutamente.
Il cambio di rotta dei quattro ragazzi più folk-rock del pianeta era stato ampiamente annunciato. Loro stessi parlandone nelle varie interviste lo hanno spiegato più o meno così: mentre eravamo in giro in tour abbiamo cominciato a scrivere canzoni in cui non sentivamo il bisogno del banjo o della cassa a pedale (kick drum) o del contrabbasso, ma di un suono diverso. Così si sono rivolti a nuovi produttori, nella fattispecie James Ford (già producer di Arctic Monkeys e Florence and The Machine) e per alcuni brani Aaron Dessner dei National. Peraltro molte delle stesure demo dei brani sono state registrate a Brooklyn nello studio di Dessner. Alcuni dei titoli e dei testi si riferiscono proprio ad alcune zone di New York (Ditmas, per esempio).
Allora lasciate chitarre acustiche e banjo, inserita la batteria – o se preferite, riprendendo l’immagine iniziale, lasciata la palla da basket e presa la mazza da baseball – che cosa è venuto fuori? Un album in cui malgrado un suono possente e curatissimo – e assolutamente gradevole e moderno, alle mie orecchie – tuttavia i quattro paiono non trovarsi a loro agio. L’impressione – non solo un’impressione, ma una vera e propria dichiarazione d’intenti – è quella di aver voluto cambiare, e il tentativo è lodevole, ma senza conoscere bene il territorio verso cui si migrava.
Dopo il primo album, assolutamente esplosivo pur essendo tradizionale, e il secondo che ricalcava tutto sommato le orme del primo, si può capire la volontà di cambiare pelle al terzo album, magari per non ripetersi ulteriormente.
La questione principale mi pare che affondi proprio nella qualità dei brani: manca spessore nelle canzoni, ecco, e qualunque vestito pur raffinato e accuratamente rifinito non migliora il risultato finale. Nel computo totale non dimentichiamo che la band si era tolta di torno dalle scene un paio di anni fa, provata dal continuo peregrinare in tour; un momento di stanca creativa ci può pure stare.
Aggiungiamo anche che alcune recensioni – in particolare quella di Pitchfork hanno messo in luce anche una certa povertà, direi prosaicità nei testi, a detta del recensore molto omologati e poco originali. Per essere obiettivi diciamo anche che invece altri recensori hanno accolto questo approdo dei Mumford come un positivo passaggio ad una nuova, più moderna era. Io no. Mi mancano sostanzialmente due cose.
Uno, nonostante qualche buon pezzo, quello che manca di più sono proprio le canzoni. Sono pronto a scommettere che fra i brani di questo disco pochissime canzoni resisteranno nelle scalette future dei live del gruppo. Forse l’intimità chitarra e voce di Cold Arms – ma questa è la meno innovativa – o magari la struttura diagonale e spezzata di Ditmas, forse il brano più convincente dell’album, debitore però della struttura melodica ed accordale di Holland Road, dal precedente album Babel.
Sta di fatto che musicalmente il passo ritmico tum-tum-cha tu-tum-tum-cha annunciato dal primo istante è un po’ troppo presente per non risultare noioso – il brano d’apertura Tompkins Square Park, il secondo singolo The Wolf, la successiva Wilder Mind, la già citata Ditmas, l’interessante Snake Eyes, interessante per metà, fino a quando non ricompare il famigerato pattern ritmico.
Due: è stato un cambiamento in cui si è deciso di rinunciare praticamente a tutti i caratteri distintivi, costitutivi di un sound che era stato rivoluzionario, pur essendo legato a filo doppio alla tradizione. Insomma, “Lisa dagli occhi blu, senza le trecce la stessa non sei più”: senza le accordature aperte, senza il banjo ma soprattutto senza quella vocalità comunitaria che contraddistingueva praticamente tutti i brani si è forse troppo snaturato un prodotto che una sua natura ce l’aveva, eccome.
La coralità per la verità fa capolino fra le atmosfere iniziali di Only Love, e rende il brano accattivante e drammatico; torna viva e presente anche la voce di Markus, prima che il tutto rientri nuovamente nel frullatore e venga nuovamente piallato dalla solita, ripetitiva ritmica standard.
The Wolf accenderà le folle con la sua potenza mostruosa durante i live, il brano è possente e ben riuscito, ma troppo spesso nel resto dell’album il livello non è lo stesso. Le parole di una poetica nuova, consistente di parole, musica, suono, voci e arrangiamenti presente nei primi due lavori risultano ultimamente annegare in un abito sfavillante, certo, ma a mio modo di vedere non adeguato. Ho provato anche ad inventarmi un esperimento: immaginarmi le melodie e gli accordi di alcuni dei brani sulle ritmiche di alcune delle canzoni degli altri album. Per esempio la geometria irregolare di Monster sull’andatura ritmica, che so, di Winter Winds.Probabilmente avrebbero reso di più. Vedremo se l’impatto live e la suggestiva cornice dell’Arena di Verona infonderanno nuova linfa ad una produzione stavolta piuttosto deludente.