Lasciate che vi racconti della mia vita attraverso un pugno di canzoni, sembra voler dire Luigi Grechi, che da qualche anno si è riappropriato del suo vero cognome, De Gregori (Grechi era quello della madre), in scena al Nidaba Theatre di Milano qualche sera fa. 

Da solo, con la sua chitarra acustica, trasforma il piccolo pub milanese nel Folkstudio, lo storico locale di Roma che negli anni sessanta voleva tanto assomigliare ad un pezzo del Greenwich Village di New York. Che poi non è neanche così banale, provare a raccontare di sé, con sincerità e passione come ha fatto questo cantautore, fratello del più celebre Francesco De Gregori, ma, per quelle strane e imperscrutabili vie del destino, immeritatamente meno celebre. 



Non è scontato perché molti, di fatto, non lo fanno; lasciano che le canzoni siano talvolta la maschera da indossare sul palco, per camuffare la vita o, tutt’al più, nasconderla, proteggerla dalle troppe ferite e da ogni tentativo d’intrusione. E se è anche vero che le canzoni camminano da sole, capaci, come ogni opera d’arte, di suggerire al tuo cuore il percorso e le strade dove esso ha bisogno d’andare, è altrettanto bello quando ci è concesso, poter entrare anche nelle pieghe dell’esistenza di chi le ha create, carpire qualche segreto di come siano state costruite, toccare qualche nodo di quella rete di sensazioni e fatti di vita che hanno fatto sì che esse vedessero la luce. 



Luigi Grechi, nel suo breve concerto acustico – una carrellata dei suoi più grandi successi – non si è certo risparmiato in questo. Ogni canzone è stata preceduta dal racconto di quel pezzo di esperienza che l’aveva preceduta, dentro una modalità di affrontare la vita magari a muso duro, ma con un ineffabile desiderio di verità e di sincerità.

Stivali e Tequila, ad esempio, è la dichiarazione d’intenti di un giovane uomo che vuole fare della strada e degli incontri che essa procura, una casa e una maestra di vita. Senza dimenticarsi però che chi una casa di fatto non ce l’ha vive un dramma senza spazio e senza tempo, e allora anche quella Ain’t Got No Home di Woody Guthrie, cantata in apertura di concerto e dedicata ai nuovi immigrati di oggi, che, quando non muoiono su un barcone, arrivano senza nulla con sé su terre straniere e sconosciute, significa dimostrare di non aver mai perduto una sensibilità per il dolore che passa accanto nell’attimo presente della vita.



Anche Il bandito e il campione, forse una delle sue canzoni più belle, diventa un modo straordinario di riflettere sul senso del peccato e sul bisogno di redenzione che, dichiarato o meno, abbiamo tutti, senza distinzione. Il brano canta della storia di amicizia tra il grande campione di ciclismo Girardengo e il bandito Sante Pollastri, e dell’arresto di quest’ultimo, avvenuto durante una corsa dell’atleta. Luigi racconta di come, al momento dell’arrivo della polizia, Sante non avesse opposto alcuna resistenza e del fatto che, dopo anni di carcere vissuti da detenuto modello, fosse tornato al suo paese per condurre una vita di assoluta semplicità ed onestà. E’ bello guardarlo negli occhi, mentre spiega di quel criminale che sembrava quasi attendesse la cattura, troppo appesantito dai propri misfatti e da un’esistenza che, nella latitanza, si era fatta ormai insostenibile. Si coglie un’empatia, nel volto del cantautore, che riconosce nel peccato qualcosa di cui nessuno debba scandalizzarsi e narra di quell’esigenza di bene – la redenzione, appunto – che ad un certo punto affiora in maniera decisiva e inesorabile nella vita di ogni uomo che non stia, più o meno consapevolmente, mentendo a se stesso.

L’Angelo di Lyon, traduzione di un testo di proprietà condivisa tra Steve Young e Tom Russell, diventa invece la scusa, per Luigi, di raccontare di incontri ed emozioni avvenuti sul percorso della sua lunga strada di canzoni. Prima di lanciarsi nel brano – inciso anche da Francesco De Gregori, e sempre straordinario per come sappia toccare il più profondo senso religioso dell’uomo – ci racconta di eroi, lo stesso Russell, Townes Van Zandt ed altri, tutti compagni di musica e di vita, fonte d’ispirazione per note e per idee che Luigi, a settant’anni, riesce ancora a mettere egregiamente in scena, dimostrando tra l’altro, con il suo tocco di fingerpicking, di possedere una tecnica chitarristica non propriamente comune. 

Prima di Pastore di Nuvole, altra grande canzone, c’è anche tempo per far salire sul palco, per una manciata di minuti, vecchi e nuovi amici, come Francesco D’Acri, per esempio – esecutore di una splendida cover di Ring Of Fire – molto più giovane di lui, ma presentato con la gioia sincera di chi mostra di non avere smesso di aver voglia d’incontrare ancora gente che abbia qualcosa  da dire al proprio cuore, e il “veterano” Claudio Sanfilippo, cantautore milanese doc. 

Si sa via, alla fine, con un unico rammarico. Quello di non aver avuto, per pudore, il coraggio di avvicinare Luigi per qualche istante, anche solo per un breve assaggio di conoscenza, lui che, prima dello show, si lascia accostare da chiunque con facilità, a due passi fuori del locale. Ma si torna a casa felici d’aver incontrato un uomo vero, che ha cantato e raccontato di sé. Delle proprie gioie e delle fatiche, di piccoli successi, ottenuti senza compromessi, e di storie di peccato e di desiderio di redenzione. 

E’ un abito fatto di sincerità che lui ha indossato e che, forse, inconsapevolmente, ha provato a togliersi di dosso, alla fine della serata, per passarlo a ciascuno dei presenti. Un abito da provare a rimettere di nuovo anche domattina in ufficio, a casa, oppure a scuola.  Per riscoprire il nostro bisogno di bene e provare ad essere felici. Felici, come Luigi Grechi De Gregori sembra essere ormai per davvero. Questo “vecchio pastore di nuvole e minatore di desideri”. Il “marinaio di lungo corso che ha navigato sui sette dolori” e che questa sera ha fatto attraccare la sua barca al porto dei nostri cuori.