Come per qualsiasi vita musicale dal solido referente storico, la tenuta e la rilevanza del suono progressive rock nel presente esige da chi vi si accosti coraggio e disponibilità a rifarsi a un’ingombrante eredità con tutta la dedizione e fatica che un simile lascito richiede.  I decenni successivi ai settanta hanno lasciato molte macerie sul campo, i testimoni dei grandi ensemble sono stati presi spesso senza cognizione di causa o con la superficialità di chi credeva di conquistare un posto di rilievo dedicandosi al puro culto della forma.



In un quadro dove si è rivelato via via sempre più utopico riuscire a individuare un’ipotesi di lavoro di una qualche credibilità, trovarsi a tu per tu con la proposta musicale dei Not a Good Sign è, come nelle migliori forme d’arte, misurarsi con un autentico depistaggio.  Quasi un’esca sonora per condurre in altri lidi.  Più sfumati di un ovvio paradigma prog, meno consueti di certo ritualismo hard-rock.  Un rimescolare moventi e intenzioni non certo per lo sfizio di un attimo quanto per rimettere tutto in gioco e mettersi in discussione con fatica e perseveranza.
Se queste sono le premesse per dire e raccontare qualcosa di valido e stimolante, allora nel caso dei milanesi Not a Good Sign possiamo prendere atto con soddisfazione del realizzarsi di quei presupposti.  La guida di talentuosi e navigati musicisti come Paolo Botta e Francesco Zago (reduci dall’esperienza Yugen) fa un po’ il resto.  Altri tre ottimi elementi si aggiungono ai due ideali leader.  Il cantante Alessio Calandriello, il bassista Alessandro Cassani, il batterista Martino Malcrida.   Italiani che sposano la lingua inglese per rivestire il progetto artistico di un profilo internazionale su liriche che giocano tra il serio e l’avventuroso con il filone comic d’alto livello.



L’eponimo esordio targato 2013 è un immersione vitale ed energica nelle rapide di quelle trame sonore che caratterizzano da sempre il meglio del movimento in questione.  Musica che si disfa degli obblighi di etichetta per rendersi, come nei casi più felici, art rock a tutto campo e senza regole predefinite.  Un disco forte della sua trazione anteriore, di armonie scoscese e impazzite, di melodia e violenza sonica ben dosate, ritmi tosti e tempi spesso veloci per un risultato di grande efficacia.

Un precedente di tale livello poteva creare ben più di un imbarazzo nell’accostarsi a un degno erede.   E invece un sapiente cambio di prospettiva si rivela decisivo.  “From a Distance” senza voler ripartire da zero, riparte da uno evitando la tentazione di replicare formule e forme vincenti a cominciare dal titolo dove una distanza fisica e spirituale all’apparenza incolmabile viene capovolta, a livello musicale, con l’applicazione di un preciso stratagemma di sviluppo sonoro. 



Wait For Me in apertura è il perfetto paradigma di questo dirottamento su territori inconsueti. L’iniziale riff aggressivo e convulso del tandem chitarra elettrica/basso lascia spazio ad un Hammond danzante che insegue fantasmi de Le Orme e in meno di un minuto si placa disegnando con sapienza una melodia pensosa e oscura prima della ripresa del riff in coda.

Going Down ne segue la scia smorzando ancora più i toni con un tema ancor più rilassato e crepuscolare.  Senza movimentare ritmi che si mantengono su mid-tempo via via sempre più sostenuti, l’atmosfera va progressivamente in crescendo con una Flying Over Cities che segna uno dei due punti più alti del lavoro.  Scansioni strumentali d’impatto preparano il terreno ad un brano dove il canto si assesta su territori tra epic noir e AOR fino ad una magistrale digressione dove i sintetizzatori di Botta si innalzano su ardite modulazioni electro-psych.  Da applausi.  

Disco che si snoda come un peculiare musical doom-fantasy senza disdegnare l’utilizzo di delicati intermezzi classici – come Aru hi No Yoru Deshita in chiusura di prima parte – che spezzano la tensione di un percorso che prosegue ai margini del precipizio sin dalla successiva Pleasure of Drowning.  La cifra hard’n’heavy di Zago – al suo passo d’addio nel gruppo – si definisce per disciplina e abilità nell’evitare cliches e sbavature con un’agile sequenza di smorzate sonore e decelerazioni ritmiche.  Quasi complementare la conclusiva The Diary I Never Wrote che vede lo stesso Zago cimentarsi in un breve e intenso sfogo solistico come ideale commiato in grande stile.  

Una carica emotiva e creativa che pur non trovando conferma nella strumentale Open Window, si ristabilisce  nel passo cangiante di  I Feel Like Snowing.  Nel giro di 7 minuti vengono sintetizzati al meglio umori e percezioni del lavoro tra l’iniziale tema riflessivo e il successivo break strumentale che svaria tra bordate elettriche e soluzioni di ampio respiro.  Il tutto condotto magistralmente da una band affiatata al millimetro.      

L’epilogo affidato ancora ad un breve ed etereo passaggio classico dove il tandem ospite Maurizio Fasoli (piano) ed Eleonora Grampa (oboe) sembra rifarsi velatamente al Mattino di Grieg, lascia con il più classico degli interrogativi.  Sogno o realtà? Incubo o premonizione? La risposta non potrà che arrivare da uno spudorato rimbalzo del tempo presente.  O da quella temuta distanza che misteriosamente qualcosa o qualcuno sarà in grado di colmare.