Va in scena un atto unico, la morte dell’artista davanti al pubblico adorante. C’è un elemento di morte in ogni performance artistica, perché l’arte evoca vita e morte in ugual misura, a volte più una che l’altra. Nel caso di Sixto Rodriguez la morte trascende la performance stessa e si incarna nella figura dell’artista stesso. E’ lui la morte che si presenta nuda e sfrontata davanti al pubblico, quasi a deriderlo e a cercare una sorta di vendetta: guardate come mi avete ridotto. Ingmar Bergman e William Shakespeare stasera sono ospiti d’onore in prima fila e sorridono compiaciuti.



Non è un concerto in realtà, è un commosso tributo a un uomo che ha vissuto due, tre vite, perdendo quasi sempre secondo l’ottica umana, non in quella sovrumana. La gente che riempie il lussuoso teatro Arcimboldi e che ha sborsato soldi non da poco per esserci lo sa e non è qui davvero per la musica: è qui per vedere se Sugar Man esiste davvero e per pagare il suo debito. Nel vero senso della parola: uno dei massimi geni della popular music del secolo scorso derubato di ogni centesimo, derubato della sua arte, derubato di tutto ma non del cuore e dell’anima merita che gli si ridia indietro almeno qualcosa. Nonostante il concerto sia di qualità musicale molto scarsa (colpa, più che di Rodriguez, di una band di scalzacani improvvisata probabilmente il giorno prima e che non conosce l’abc della musica) al pubblico non importa. Sono standing ovation continue, la gente applaude fragorosa e gli invia tutto il suo amore. Per l’uomo. E che uomo.



Lui anche se adesso si esibisce sulle assi dei più prestigiosi teatri del mondo è rimasto quello che nel 1967 si esibiva in scalcinati e puzzolenti bar di Detroit, un folksinger. Suona e canta per conto suo e quei ragazzi non sanno come fare per stargli dietro. Improvvisa canzoni altrui che quei giovanotti non hanno mai sentito prima: Blue Suede Shoes, Only You, Somebody to Love dei Jefferson Airplane, La bamba, il primo brano rock ccomposto in messicano, tributo alle sue origini chicane, Love me or Leave me di Nina Simone, una azzeccata The Thrill is Gone di BB King, morto proprio il giorno di questo concerto ed eseguita in sua memoria e alla fine il pezzo più straordinario della serata, quello eseguito meglio anche dalla band, una cover di Frank Sinatra, I’m Gonna Live till I Die che è il manifesto di Rodriguez oggi, una dichiarazione di appartenenza, una testimonianza di rispetto per la vita comunque essa sia e lui ne sa qualcosa, che ha scaricato mattoni nel gelo di Detroit per mantenere la famiglia mentre altri si arricchivano alle sue spalle. Commovente. In mezzo i suoi classici: I Wonder, Climb Upon My Music,Crucify your Mind, Forget it, Like Janis e ovviamente Sugar Man, canzoni che non hanno perso la rabbia dylaniana e la magia di Donovan che avevano 40 anni fa



L’uomo adesso è stanco, si toglie la tuba nera, è quasi del tutto cieco, cerca le mani delle due assistenti che lo hanno accompagnato al microfono, fa in tempo ad alzare un pugno e sussurrare “power to the people” messaggio estremo di dignità poi quasi accasciato chiede di essere portato via: “vivrò fino a quando morirò, riderò invece di piangere, prenderò la città e la ribalterò, sarò un diavolo, fino a quando diventerò un angelo ma fino ad allora: alleluja!”.

Noi c’eravamo. Abbiamo visto Sugar Man spuntare dall’inferno e lo abbiamo applaudito e lui ci ha fatto capire che siamo degni di essere uomini e donne non malgrado la nostra umanità caduca, ma semplicemente a causa della nostra umanità stessa.