Dice Simon Reynolds che il punk è morto il giorno stesso in cui, al posto di continuare a ripetere il suo essere “contro”, si è fermato e si è chiesto: “A favore di cosa siamo?”. A quel punto, secondo la ricostruzione del celebre critico, la furia iconoclasta di questo movimento musicale si sarebbe pian piano esaurita nella scoperta, folgorante e deludente, di non riuscire ad esprimere nulla se non una generica protesta contro la società e la scena musicale esistente. Protesta che, per essere sinceri, si incanalava nelle classiche forme musicali allora a disposizione: dopo tutto, come ha fatto notare qualcuno, i Sex Pistols realizzarono un album, esattamente come tutti gli altri; e lo fecero uscire per la EMI, che poi così piccola allora non era.
Quando sia iniziato il cosiddetto “Post Punk” è difficile dirlo. In tanti mettono la data della fuoriuscita di Johnny “Rotten” Lydon dai Pistols e la conseguente nascita dei Public Image Ltd che, esattamente come tutti i gruppi che proliferarono in questa fortunata stagione, scelsero di decostruire la forma canzone, di continuare la loro protesta attraverso forme espressive fino ad allora inedite.
È stato il momento più creativo per la musica rock dopo gli anni ’60, un’epoca in cui, sempre secondo le parole di Reynolds, non c’era bisogno di comprare dischi vecchi semplicemente perché ne uscivano troppi nuovi che valesse la pena possedere.
Definire con esattezza il Post Punk, identificarlo con una certa specifica impronta sonora è impossibile proprio per questa enorme varietà espressiva, che portava ogni band a voler creare cose che non si fossero mai sentite prima e voleva oltretutto farlo alla propria maniera.
I Joy Division, appunto, vengono fuori da qui. Era il 20 luglio 1976 quando Bernard Sumner, Stephen Morris e Peter Hook, tre adolescenti ribelli e irrequieti della periferia di Manchester, si recano al concerto dei Sex Pistols nella loro città.
Ce n’era già stato uno il 4 giugno, sempre alla Lesser Free Trade Hall ma ci erano andate solo quaranta persone e solamente Hook era tra queste. Anni dopo, vista l’importanza dell’evento per la nascita della scena rock mancuniana, saranno in molti a voler far credere di esserci stati. Talmente tanti che sarebbe stato necessario scrivere dei libri sull’argomento, giusto per fare chiarezza.
Comunque, il Punk è un fenomeno ancora relativamente nuovo, Manchester è, musicalmente parlando, una mera succursale di Londra, e qui tutti sono in fermento per questi quattro individui vestiti di stracci che suonano un rock veloce, furioso e sgraziato, in concerti dove spesso e volentieri si arriva alle mani con il pubblico.
C’è anche Ian Curtis, quella sera. Si era perso il primo concerto (a quello a quanto pare ci erano andati solo Morrissey e pochi altri) ma era ben deciso a non lasciarsi scappare questo. Alto, dinoccolato, lo sguardo cupo e un giubbotto di pelle con la scritta arancione “Hate” ben in vista sulla schiena, scrittori come Burroughs, Kafka, Dostoevskij, e musicisti come Iggy Pop e David Bowie come idoli assoluti.
Dopo la breve e intensa esibizione, il pensiero dei tre è immediato e folgorante: metteranno su una band e suoneranno proprio quel genere veloce e distruttivo.
Giri di conoscenze comuni fanno sì che Curtis sia visto come l’elemento più adatto per ricoprire il ruolo di frontman.
Decideranno di chiamarsi Warsaw, in omaggio ad una canzone di Bowie contenuta nell’album “Low” ma da subito questa parola così evocativa, legata ad un immaginario di guerra fredda, diventerà la più adatta a fotografare il sound freddo e asettico che traspare dalle loro prime composizioni.
“Penso che suonavamo come suonavamo perché non sapevamo copiare lo stile di altri gruppi – ha recentemente dichiarato il chitarrista Bernard Sumner – Non eravamo bravi abbastanza, per cui non ce ne preoccupavamo. Non ci accorgevamo veramente di quello che accadeva intorno a noi. All’inizio, quando abbiamo iniziato, un po’ lo facevamo, però non riuscivamo del tutto ad essere punk o una roba del genere. Abbiamo deciso quindi di essere noi stessi. Da quel momento in avanti, abbiamo solo lavorato per noi stessi. Non abbiamo mai suonato in nessun altro stile che non fosse il nostro.”
In effetti il sound dei Warsaw avrà da subito un carattere fortemente personale: per quanto cercassero di ispirarsi ai loro eroi, dai Pistols ai Velvet Underground, quel che veniva fuori sfuggiva immancabilmente ad ogni punto di riferimento.
Sulla copertina del primo ep “An Ideal for a Living” campeggia il disegno di un fanciullo della Gioventù Hitleriana che suona un tamburo. Questo e l’ambigua frase “Vi siete tutti dimenticati di Rudolf Hess?” pronunciata da Curtis durante il concerto per la chiusura definitiva del celebre Electric Circus di Manchester, provocheranno non poche insinuazioni sulla loro fede nazista.
Un elemento che non sarà mai chiarito e che molto probabilmente aveva più a che fare con il desiderio di provocare, giocando cinicamente con un immaginario ancora molto vivo nella società britannica, piuttosto che con un vero e proprio giudizio politico.
Fatto sta che l’obbligata decisione di cambiare monicker (c’era già un’altra band inglese con lo stesso nome) e la scelta di Joy Division (espressione che Curtis prese da un romanzo ma che indicava le donne ebree che i nazisti utilizzavano come schiave sessuali) non contribuirono esattamente a dissipare i dubbi, seppure non è detto che tutti cogliessero il riferimento.
Il supporto del giornalista dell’NME Paul Morley, del conduttore di Granada TV Tony Wilson, vera e propria celebrità nella scena di Manchester, l’oculata gestione finanziaria di Rob Gretton, contribuirono alla lenta ma inesorabile ascesa della band.
“Unknown Pleasures”, il disco di debutto, viene pubblicato il 15 giugno 1979 e si capisce immediatamente di essere al cospetto di una futura pietra miliare. A cominciare dalla copertina, quell’immagine dello spettro elettromagnetico di una Pulsar, trovata per caso da Stephen Morris e diventata quasi immediatamente una delle icone più importanti della storia del rock, tanto da campeggiare spesso e volentieri su magliette indossate da persone che nulla sanno della band e dei suoi trascorsi.
Ma a rivelarsi fondamentale fu l’incontro col giovane e talentuoso produttore Martin Hannett, che allora era famoso soprattutto per aver lavorato su “Spiral Scratch” il primo, storico ep dei Buzzcocks.
Un tipo strambo, dal pessimo carattere, ma tremendamente geniale e, quel che più conta, non ancora rovinato dalla tossicodipendenza che lo avrebbe portato alla morte nel 1991, a soli 43 anni.
Hannett intuì le potenziali dei pezzi del gruppo, ma ne cambiò completamente la veste sonora, donando loro quel sound freddo, squadrato, chirurgico, quasi impersonale. Una scelta che fece infuriare la band, abituata ad avere un impatto molto più ruvido sul palcoscenico, ma che alla lunga si rivelò vincente. Se oggi questo album suona così attuale ed è un punto di riferimento per chiunque voglia capire cosa è successo dagli anni ’80 in avanti, è certamente merito di questa scelta di produzione.
Un gruppo dalle enormi potenzialità, i Joy Division: non certo dei virtuosi tecnicamente (come molti colleghi di quel periodo, sposavano l’etica Punk per cui non è davvero importante saper suonare bene uno strumento, per scrivere canzoni) avevano però sviluppato piuttosto in fretta uno stile del tutto personale e l’alchimia tra di loro era davvero stupefacente. La voce baritonale di Curtis, profonda ed espressiva, aveva echi di tragica sofferenza e contribuiva alla particolare atmosfera inquietante delle canzoni. Canzoni che erano spesso lente, cupe, ossessive, ma che possedevano allo stesso tempo un’innegabile potenziale melodico, dato dalle incisive linee chitarristiche di Bernard Sumner e che, con i dovuti accorgimenti, avrebbero potuto funzionare bene anche in uno stadio.
Il successo non fu immediato e travolgente ma il gruppo piaceva, suonava sempre più spesso dal vivo e si capiva che, anche grazie all’ottimo lavoro di Gretton in sede promozionale, i grossi traguardi sarebbero stati tranquillamente alla loro portata.
C’era però un dettaglio non trascurabile: Curtis era epilettico. La malattia si era manifestata ben prima della registrazione di “Unknown Pleasures”, di ritorno da un concerto piuttosto sfortunato, ma da allora in avanti le crisi sarebbero state frequenti, anche più di una volta al giorno.
La moglie Deborah fece di tutto per aiutarlo ma i numerosi consulti con vari specialisti servirono a poco: a quei tempi l’epilessia non era ancora studiata in modo approfondito e, quel che più conta, non esisteva una rete di supporto che spiegasse bene come convivere con una persona afflitta da questo male.
Ad Ian vennero prescritti parecchi farmaci e gli venne detto chiaro e tondo che la vita che faceva (sveglia all’alba per recarsi al suo lavoro di impiegato comunale, i numerosi concerti anche infrasettimanali, che lo tenevano impegnato fino a notte fonda) non era esattamente l’ideale per la sua malattia.
Se i Joy Division fossero già stati una realtà affermata, si sarebbe forse potuto rallentare il ritmo, senza timore che questo influisse sulla loro popolarità. Purtroppo per loro, le cose non stavano ancora così: c’era attenzione crescente attorno al quartetto, ma per mantenerla tale e per raggiungere nuovi traguardi, occorreva battere il ferro finché era caldo e cercare di darsi il massimo della visibilità.
Nessuno aveva intenzione di rallentare, tantomeno Ian, per cui il problema fu minimizzato. Le crisi avvenivano con cadenza regolare e, dato non indifferente, ce n’era sempre almeno una sul palco. I fan erano arrivati ad aspettarselo e le vedevano come un elemento che aggiungeva fascino allo show. Tutto questo contribuì a creare un alone di leggenda e mistero attorno al personaggio ma fece nascere anche tutta una serie di tensioni attorno alla band e minò in maniera irreversibile la già fragile psiche di Ian.
I rapporti sempre più tesi con la moglie (anche a causa della particolare gestione di Rob Gretton, che teneva il gruppo rigidamente separato da mogli e fidanzate, in occasione dei tour), la relazione extraconiugale con Annik Honorè, una ragazza belga conosciuta in tour, la presenza costante di una malattia che nessuno riusciva a guarire, l’enorme stress che comportava il militare in un gruppo in costante ascesa… tutto questo finì per logorare definitivamente la psiche di Ian, che già di suo era sempre stata fragile e complessa.
I testi del secondo disco “Closer”, registrato a Londra nel marzo del 1980 nei celebri studi di Britannia Row, sono i più angosciati e claustrofobici mai scritti dal giovane singer, un’autentica e disperata richiesta d’aiuto.
Ma i suoi compagni non poterono accorgersene. Non leggevano mai le cose che scriveva, si fidavano ciecamente del suo talento nel trovare sempre le parole giuste per le melodie che venivano composte. Se lo avessero fatto, probabilmente avrebbero potuto intuire che qualcosa si stava preparando. Stessa cosa per Deborah: impossibilitata a partecipare ai concerti (sia per la rigidità di Gretton, sia per la figlia piccola da accudire), non riuscì neppure a recarsi a Londra per le session di registrazione, dato che il marito le aveva fatto credere che il manager avesse bloccato il seguito femminile. Non era vero, come scoprirà in seguito, ma Ian aveva deciso di invitare Annik, per la quale era stato addirittura riservato un appartamento.
Il cantante ritornò dalla capitale con una copia dell’album registrata su cassetta ma i due non possedevano un mangianastri e quindi fu solo dopo che tutto si era già compiuto, che si poté vedere in quelle canzoni un riflesso di una decisione che era probabilmente già stata presa.
Musicalmente, “Closer” fu un notevole passo avanti. Rispetto al predecessore, gode meno della fama di classico e sono moltissimi i fan che lo considerano inferiore ad “Unknown Pleasures”. Ciononostante, l’ascolto delle nove tracce che lo compongono rivela una crescita non indifferente, con composizioni più articolate e un maggiore utilizzo di tastiere e sintetizzatori. Passo avanti anche nella produzione, con Martin Hannett che fece ancora una volta un lavoro superbo, delineando ogni strumento con precisione e accentuando ancora di più quel suono glaciale che divenne poi un marchio di fabbrica tra i più imitati dalle giovani band che volevano seguirne le orme.
A farne le spese, soprattutto Stephen Morris, la cui batteria fu registrata un pezzo alla volta, proprio per dare quell’idea di meccanicità, freddezza e spersonalizzazione che il producer aveva in mente.
Le discussioni tra Hannett e la band divennero leggendarie: si racconta del condizionatore dello studio alzato a palla per mettere a disagio i quattro, o dei musicisti cacciati brutalmente dalla sala durante il missaggio, per impedire che le loro continue indicazioni snaturassero il lavoro.
D’altronde, erano soprattutto Hook e Sumner a sostenere che quello che veniva fuori dalle registrazioni non catturasse in pieno lo spirito live della band, quello che a detta loro costituiva il punto forte dei Joy Division. Avevano torto, perché quei nastri erano molto meglio ma ci vollero anni prima che si rendessero conto della verità.
“Love Will Tear Us Apart”, il loro singolo di maggior successo, uscito qualche mese prima di “Closer”, con quel testo straziante che potrebbe essere riferito sia a Deborah che ad Annik, fu l’unico momento in cui la band riuscì parzialmente a spuntarla sul loro testardo produttore.
Peter Hook racconta infatti che erano entusiasti della canzone, si rendevano conto di avere per le mani qualcosa di grosso e volevano che uscisse esattamente come l’avevano in mente. Ragion per cui fu lo stesso Hook a presentarsi a metà notte alle porte dello studio, per controllare che
Hannett non ne combinasse un’altra delle sue. Questa volta il produttore accettò le indicazioni che gli vennero date ma sostenne che, per la soluzione che si voleva adottare, Morris avrebbe dovuto rifare completamente le sue parti di batteria. E così avvenne: il malcapitato drummer fu tirato giù dal letto e messo al lavoro.
Alla fine tutti (o quasi) furono soddisfatti e i Joy Division ebbero la loro prima grande hit e soprattutto un brano da consegnare per sempre alla storia.
Ma la loro, di storia, era ormai alla fine: nella notte tra il 17 e il 18 maggio del 1980 Ian Curtis si impiccò nella cucina della sua casa di Macclesfield, un sobborgo di Manchester. Venne trovato la mattina dopo dalla moglie, di ritorno da una visita ai genitori. I due erano di fatto già separati ma vivevano ancora insieme, in un ultimo, estremo tentativo di aggiustare le cose.
Era domenica. Il giorno dopo la band avrebbe dovuto imbarcarsi nel suo primo tour americano, la tanto agognata ultima tappa verso la consacrazione finale.
Bernard Sumner ricorda che sabato sera lui e Ian si erano separati con un semplice: “Ci vediamo in aeroporto” e che l’eccitazione per l’imminente viaggio era alle stelle, anche da parte del cantante. Ma è molto probabile che questi stesse solamente fingendo e che ormai da settimane avesse deciso di uscire di scena: tralasciando la sua ossessione adolescenziale per Jim Morrison e le numerose dichiarazioni secondo cui pensava che non sarebbe mai invecchiato, Ian Curtis era ormai totalmente schiacciato dalla macchina del music business.
Aveva iniziato quasi per gioco, desiderava mettere in piedi una band, registrare un singolo e un album di successo, ma non si era mai trovato a proprio agio con quella continua esposizione mediatica. L’epilessia e soprattutto il fatto che essa fosse divenuta un ingrediente essenziale del fascino che i Joy Division esercitavano sul pubblico, costituiva un ulteriore elemento di difficoltà. Da ultimo, bisogna considerare che i farmaci che prendeva in dose massicce, avevano alterato profondamente la sua personalità. La depressione e il suicidio erano tra gli effetti collaterali di questi medicinali, solo che all’epoca le informazioni non erano così chiare o, se lo erano, nessuno si premurò di fornirle a Deborah e Ian.
Per la band fu ovviamente la fine. Quando “Closer” fu pubblicato, nel giugno di quell’anno, i Joy Division non esistevano più. L’America rimase un miraggio, per tutte quelle band che erano nate dalle ceneri del Punk. Qualche anno dopo furono gli U2 a conquistarla e a costruirci sopra il loro successo planetario: non ricordo più quale importante critico musicale affermò che se non fosse stato per il suicidio di Curtis, sarebbero stati i Joy Division a trionfare oltreoceano e Bono e compagni non avrebbero avuto niente di nuovo da portare.
Ma queste speculazioni, per quanto affascinanti, servono a poco. Rimane che, con soli due album e una manciata di singoli all’attivo, questa divenne una delle band più importanti della storia del rock. Tolti quei gruppi che guardavano esplicitamente a quel che succedeva nei decenni precedenti, nessuno che avesse iniziato a suonare rock dopo il 1980 avrebbe più potuto prescindere da questi quattro ragazzi di Manchester. Certo, un grande peso ebbe la storia del loro cantante e quello status di leggenda che sempre il rock concede a chi sceglie di andarsene così velocemente e in modo così brusco. Ma non fu solo quello: i Joy Division sapevano scrivere canzoni e avevano trovato un modo tutto loro per riplasmare e rendere nuovi gli elementi ereditati dalla tradizione. E, lo abbiamo già detto, c’era un genio per loro, dietro alla consolle.
La storia di come i tre superstiti diventeranno i New Order e raccoglieranno, finalmente, tutto quanto avevano seminato, è, appunto, un’altra storia.
Noi oggi ricordiamo Ian Curtis, a 35 anni dalla sua scomparsa, e lanciamo un affettuoso e commosso saluto alla moglie Deborah, che anni fa pubblicò uno splendido racconto dei suoi anni col marito (“Touching from a Distance”, da cui Anton Corbijn ha tratto il bellissimo film “Control”) e anche alla figlia Natalie, che è diventata una fotografa di successo e che, nonostante tutto, è una fan della musica di suo padre.
Questa sera, oltretutto, Peter Hook renderà omaggio al suo vecchio amico con un concerto speciale in una chiesa di Manchester, durante il quale verrà ripercorso per intero il repertorio di “Unknown Pleasures” e di “Control”.
Già, Hook. L’ormai ex bassista dei New Order ha fatto molto parlare di sé due anni fa, quando pubblicò una biografia dei Joy Division (oggi tradotta anche in italiano) che ricostruiva certi fatti in maniera molto diversa rispetto a quanto fatto da Deborah: a detta sua, Ian non sarebbe mai stato un ragazzo depresso nè alterato, ma era sempre molto allegro e desideroso di divertirsi e fare baldoria, esattamente come gli altri tre. Con la moglie si comportava diversamente e, insinuazione sottile e indiretta, forse proprio perché non era contento del suo matrimonio.
Ma è inutile portare avanti sterili polemiche: entrambe le ricostruzioni sono verosimili, proprio perché provengono da due persone che lo hanno conosciuto bene ma in ambiti completamente diversi. Resta una sola grande verità: Ian non è stato capito, le sue richieste d’aiuto sono cadute nel vuoto ma, come sempre accade in questi casi, tutti sono responsabili e allo stesso tempo nessuno lo è veramente.
Qualche anno fa, intervistati per le note di copertina della ristampa di “Closer”, Sumner, Hook e Morris si trovarono d’accordo nel dire che, suicidio o meno, stante le condizioni psicologiche di Curtis, i Joy Division non sarebbero durati a lungo. È probabile che sia vero, che non sia una semplice tentativo per liberarsi dei sensi di colpa. A riguardare quello che la band ha fatto in quei pochi anni di vita, è ben difficile immaginare cosa avrebbero ancora potuto realizzare. Ma forse, queste sono solo distorsioni date dal senno di poi. O forse, ancora, tutti questi ragionamenti sono inutili.
Meglio essere grati di aver avuto Ian Curtis e i Joy Division. Questa sera, chi è in zona vada a sentire Peter Hook. Per tutti gli altri, mettere su “Unknown Pleasures”, “Closer” o una buona compilation di inediti e rarità, potrebbe essere la soluzione migliore…