E finalmente è uscito anche il tanto atteso album di Thomas Neuwirth, cantante austriaco che, da quando ha scelto di diventare drag queen, ha assunto lo pseudonimo di Conchita Wurst. Il monicker, che accosta un nome cubano tra i più diffusi a un termine dello slang tedesco che equivale più o meno a “non me ne importa nulla”, è già di per sé esemplificativo dell’idea che starebbe alla base del discorso artistico da lui portato avanti: sii quello che sei, l’identità non è importante, quel che conta è ciò che vuoi essere, i talenti che sai esprimere, ecc. 



Ma siamo davvero sicuri che le cose stiano così? Vale a dire, possiamo veramente stare tranquilli sul fatto che l’identità sessuale non abbia nessun peso, nel momento in cui vogliamo valutare questa proposta musicale? 

Leggendo semplicemente la pagina di Wikipedia dedicata all’artista, veniamo a scoprire che occupa il settimo posto nella classifica mondiale dei cantanti più cliccati sul web, ci viene detto che ha incontrato il Segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon, e che ha cantato all’interno del Parlamento Europeo, oltre a tutta una serie di apparizioni in contesti che con la musica hanno poco a che fare. Non è un po’ poco, considerando che ha solo un disco all’attivo, per giunta appena pubblicato? 



D’altronde noi lo sappiamo bene: a marzo si era esibita anche al Festival di Sanremo e la sua partecipazione era stato un po’ l’evento mediatico del mese, con tutta la sterile polemica che l’aveva preceduta: “È giusto che canti? Non è forse stata invitata solamente perché è una drag queen? Così si strumentalizza la questione del gender…” e via andare con argomentazioni di questo tipo. 

Ora, posto che a me di tali questioni importa ben poco (o meglio, mi importa e ho la mia opinione, ma scrivo di musica e in questo ambito voglio rimanere), non mi pare che qualcuno si sia fatto l’unica domanda che era lecito farsi: “Che titoli ha Conchita Wurst, per fare l’ospite internazionale a Sanremo?”. E attenzione che non stiamo parlando di qualità artistica: per quanto mi riguarda, io agli One Direction l’anno scorso non avrei fatto pulire neppure i bagni dell’Ariston, ma stiamo comunque parlando di una band che ha venduto milioni di dischi in tutto il mondo, che in Italia ha centinaia di migliaia di fan e il fatto che siano quasi tutte ragazzine urlanti fa ben poca differenza. 



No, qui abbiamo una cantante senza dubbio molto dotata vocalmente (per quel che ne posso capire io) ma che all’attivo aveva solamente la vittoria all’Euro Contest del 2014 (con il brano “Rise Like a Phoenix”, che compare anche sul disco appena uscito) e ben poco altro. 

Dunque? Dunque se le cose stanno così, se davvero le ragioni per invitarla non potevano essere cercate nell’ambito strettamente musicale, è abbastanza inevitabile che qualcuno pensasse ad insinuare che “l’hanno invitata per il suo orientamento sessuale. L’hanno invitata per fare polemica. Un giorno la famiglia tradizionale, il giorno dopo il travestito.” 

Ora, io davvero non lo so. Può anche darsi che a Carlo Conti il singolo piacesse tantissimo e l’abbia voluta a tutti i costi. 

Però poi esce il disco, e ti arriva un comunicato stampa che dice così: “Apparenze, sesso ed etnia non hanno alcuna importanza quando si parla di dignità e libertà individuale. Per la Würst le canzoni e la sua immagine sono un veicolo per portare il suo messaggio al mondo intero in modo chiaro e inconfondibile”. 

Ecco, perfetto, benissimo. Tutto molto bello e tutto molto condivisibile. Ma qual è il messaggio che le sue canzoni porterebbero? Che ciascuno ha il diritto di scegliere come vuole essere? Che nessuno può essere discriminato per le scelte che fa? Sono d’accordissimo. Ma da che mondo è mondo, quando si parla di canzoni, prima vorrei sentire la musica. Puoi scrivere anche il più bel testo del mondo, puoi vincere il premio Nobel per la letteratura che Bob Dylan (o forse più i suoi fan) aspetta da quarant’anni, ma se scrivi musiche brutte, nessuno ti ascolterà mai. Morrissey promosse il vegetarianesimo in tempi non sospetti, ma lo fece con “Meat is Murder”, per dire. 

Quindi, se per presentare il lavoro di un’artista si scelgono frasi del genere, immediatamente a me qualcosa non torna. 

Allora forse sarebbe bene far parlare la musica. E la musica, per quanto mi riguarda, in questo caso non è granché. Ci sono dodici canzoni in questo “Conchita”. Due le conoscevamo già, vale a dire “Rise Like a Phoenix” e l’opener “You are Unstoppable” che era uscita come singolo qualche settimana fa. I restanti brani si muovono più o meno sulla stessa falsariga: un pop commerciale e smaccatamente radiofonico, a tratti aggressivo, a tratti melodico e sdolcinato al punto giusto. Arrangiamenti impeccabili, con un gusto piuttosto vario che passa da citazioni agli anni ’80 più edonistici, alle cose maggiormente di moda in campo dance pop. Produzione stellare e suono magnifico, come ormai obbligatorio nell’era del digitale a tutti i costi. 

Le canzoni sono state scritte da autori navigati e smaliziati e, diciamoci la verità, funzionano alla grande. È un disco concepito e realizzato per scalare le classifiche, non certo per rimanere nella storia: da questo punto di vista, l’ascoltatore di poche pretese, quello che sceglie la sua playlist in base a quello che trasmettono Radio 105 o Radio Deejay, non potrà non apprezzarlo interamente. 

Detto questo, non si va in più in là di così. È musica senz’anima, sono ritornelli da canticchiare distrattamente in macchina ma la profondità delle canzoni è realmente quella di una pozzanghera. 

Per carità, i gusti sono gusti e non tutti sono obbligati ad avere orecchie raffinate. Di musica così però, sugli scaffali degli autogrill e dei centri commerciali, ce n’è parecchia e non mi pare che questo “Conchita” abbia qualcosa per cui distinguersi. 

E allora, forse per questo, sotto con i discorsi sull’identità sessuale, sulla libertà di pensiero e sullo “scandalo” di Carlo Conti che a Sanremo ha osato chiamare l’artista col suo nome di battesimo, scatenando le ire di Vladimir Luxuria, ben contenta (o contento) di montare attorno a questo episodio insignificante l’ennesimo caso mediatico. 

Come faccio a sapere queste cose? No, non ho assistito alla scena in diretta. Ho letto il tutto su Wikipedia, la quale, è bene dirlo, dedica alla vicenda uno spazio non proprio direttamente proporzionale all’importanza della stessa. 

E allora, se c’è bisogno di riempire il tuo profilo con notizie di questo genere, forse la tua proposta artistica non è ritenuta abbastanza valida. In fondo basterebbe nominare gente come Antony Hegarty, il cantante, compositore e produttore che recentemente ha lavorato con Battiato ma che da anni registra dischi bellissimi sotto il monicker di Antony and The Johnsons. Oppure Mark Free, indimenticabile singer dei rocker americani Unruly Child, uno dei cantanti più dotati di tutto il panorama melodic rock mondiale. Il primo è una drag queen, il secondo ha cambiato sesso nel 1995 ed è diventato Marcie Free. Queste cose si sanno e si dicono, ovviamente. Ma sono elementi biografici, nulla di più. Stiamo parlando di gente così talentuosa che, appunto, può permettersi di far parlare solo il talento. Tanto è vero che, esperienza personale, prima ho conosciuto Antony, poi ho saputo della sua scelta di vita. 

E allora rimane da dire che ci spiace per Conchita. Perché davvero, se le cose stanno così, rimarrà sempre un dubbio, inespresso ma inesorabilmente presente: piaccio per quello che scrivo o per quello che sono? Riesco a farmi apprezzare per la qualità della mia musica o perché questa viene utilizzata da chi ha interesse a far passare un certo tipo di messaggio, a portare avanti un discorso di gender e identità sessuale? 

Da parte nostra, ci rifiutiamo di rispondere: giudicherà il pubblico, ciascuno deciderà di comprare questo disco per il motivo che riterrà opportuno. Ma lasciateci dire che queste non sono domande con cui un’artista possa convivere facilmente. 

Noi, ovviamente, auguriamo a Conchita Wurst tutto il bene possibile.