Kristian Matsson, “l’uomo più alto del mondo”, come ha deciso di chiamare il suo progetto musicale, Tallest Man on Earth, è un giovane svedese che negli ultimi anni ha fatto tanto parlare di sé. Ha pubblicato tre dischi e un paio di ep, facendosi notare per le sue composizioni folk, chitarra acustica e voce, saltuariamente il pianoforte, qualche piccola sovraincisione in più giusto nell’ultimo lavoro “There’s No Leaving Now”. Uno stile scarno, essenziale, ma anche decisamente rock, con quel modo funambolico di suonare la chitarra, di pestare sulle corde, che ha creato, nel suo piccolo, uno stile personale. 



Lo hanno paragonato a Bob Dylan ma, lasciando perdere certe esagerazioni costruite apposta dalla stampa, rimane che The Tallest Man On Earth sembrava avere tutte le carte in regola per poter essere uno di quegli artisti della nuova generazione in grado di costruirsi una carriera sufficientemente solida da poter far parlare di sé in futuro. 



Sembrava, viene da dire, perché poi nel frattempo è uscito questo “Dark Bird Is Home” e certe previsioni, forse, andrebbero un attimino rivedute. 

Era atteso spasmodicamente un po’ da tutti, fan e addetti ai lavori. In Italia poi, dopo il suo concerto sold out al Magnolia dello scorso anno, c’era davvero la forte impressione che per il cantautore scandinavo potesse essere giunto il momento della consacrazione commerciale.

Dicono che sia il secondo disco quello più difficile, mentre tanti giurerebbero che invece è il terzo quello più arduo da far venire fuori. In realtà, a mio modestissimo parere, è dal quarto in avanti che cominciano i veri problemi. 



Già, perché è vero che alla soglia del quarto ci si deve arrivare e che normalmente, se uno ci arriva, vuol dire che ha destato sufficientemente interesse con i lavori precedenti da potersi permettere di incidere ancora. Però è altrettanto vero che, dopo un certo numero di canzoni scritte e registrate, continuare a ripetersi su certi livelli non è esattamente la cosa più facile che ci sia. 

“Dark Bird Is Home” è un bel disco, se lo si ascolta senza pregiudizi e con l’idea di trovarci dentro quelle emozioni e quelle sensazioni che Kristian ha sempre saputo suscitare. Il songwriting è sempre il suo, ormai l’impronta è facilmente individuabile, il modo di cantare, la struttura dei pezzi, la costruzione delle melodie… tutto ci dice che siamo di fronte al classico lavoro a la Tallest Man On Earth. E questo è un dato positivo, non c’è da dubitarne: il ragazzo ha uno stile suo, si muove all’interno di un genere preciso ma con una sua identità particolare, con una individualità ed un carisma del tutto invidiabili. 

Ecco, questa potrebbe essere la lettura più solare e positiva di questo album. È un disco bello, coinvolgente, ottimamente prodotto e confezionato. Se vi basta, potete fermarvi qui. Se vi basta, appunto. 

Perché a me, purtroppo non è bastato. Suona tutto già sentito, eccessivamente banale, quelle melodie così perfettamente riconoscibili adesso annoiano perché sembrano davvero sempre le stesse, tutte uguali. A volte si ha addirittura l’impressione che certe soluzioni siano state studiate a tavolino, nel tentativo di risultare più appetibile, ammiccando ruffianamente al proprio pubblico, facendo quello che tutti si aspettavano da lui. 

Attenzione che qui non si sta parlando di un’eccessiva commercializzazione, di una svolta pop. Certo, la chitarra non graffia più come agli esordi, molti episodi sono più “pieni” a livello di suono, c’è un richiamo maggiore alla nuova ondata folk che va tanto per la maggiore e in generale il tutto risulta più pulito e curato. 

Ma il problema, lo ripeto, non è questo. Il problema è che sembra gli si sia esaurita l’ispirazione. I pezzi sono belli, hanno quell’immediatezza leggera che ti rimane addosso da subito, sono ben bilanciati tra malinconiche ballate e brani dall’atmosfera più festosa e in generale si sente che c’è quello spessore e quella serietà che il ragazzo ha sempre messo in tutti i suoi lavori. 

Allora perché continuare a lamentarsi, direte voi? Perché a me, detto molto banalmente, le canzoni dei primi tre dischi piacevano, queste molto meno. Probabilmente, se questo lavoro fosse uscito per primo o per secondo, sarei qui a scrivere cose diverse ma ovviamente sono cose che non si possono dire, argomentazioni puramente ipotetiche che non possono essere tirate in ballo. 

A questo punto ho provato a fare una pausa. Ho provato a smettere di scrivere questa recensione e a concentrarmi su altro. Nel frattempo, ho lasciato che il disco mi si sedimentasse nella mente. Poi è successo che è uscito il nuovo Mumford and Sons e la noia soporifera delle nuove composizioni della band britannica mi ha costretto a ritornare di corsa dal songwriter svedese. 

Che cosa ho scoperto di nuovo? Nulla, mi verrebbe da dire, se non che, a mente fredda e dopo qualche settimana di pausa, sembra che le cose funzionino un po’ meglio. 

Ci sono delle gran belle canzoni, a cominciare da “Fields of Our Home”, che apre il disco con quel suo feeling di tristezza e nostalgia, reso benissimo anche al leggerissimo tappeto d’archi che accompagna in lontananza la chitarra acustica. 

Mi ha catturato l’allegria bucolica di “Slow Dance”, con quel suo verso (“In tempi come questi anche i viaggiatori possono vincere”) che pare rivedere un po’ quell’epopea “On the Road” di cui gente come Dylan o Springsteen, tra gli altri, si erano già appropriati. E che, nello stesso tempo, sembra anche fornire una qualche chiave di lettura di questo lavoro. 

Perché se il titolo “Dark Bird is Home” risulta ancora alquanto enigmatico, la lettura dei testi (sempre molto immaginifici ed intimisti, per la verità) porta a galla quelle che potrebbero essere i due elementi complementari di cui Matsson ha scelto di cantare: da una parte la casa, dall’altra il viaggio. 

Se si va all’avventura, se si parte verso l’ignoto, se si abbandona chi si ama, è forse perché, in fondo al cuore, si è consapevoli che c’è un posto a cui tornare. 

È quello che sembra di cogliere nella deliziosa “Beginners”, tenerissima canzone d’amore, che dice che “Io e te apparteniamo a questi sentieri meravigliosi e selvaggi” ma anche che “Potrei andarmene domani ma se lo facessi, tutte le mie canzoni sarebbero tristi”. 

 

E difatti, contrariamente ai dischi precedenti, di tristezza qui ce n’è molta di meno. Non siamo al cospetto di un disco gioioso, certo, ma di sicuro vi si respira una serenità che mai avevamo trovato nei suoi lavori passati.

La conferma arriva alla fine, con quella “Dark Bird is Home” che è semplicemente l’episodio migliore del disco, un bozzetto tutto acustico come ai vecchi tempi (nel finale entrano archi e batteria e tutto si colora) e che trasmette un senso insieme di malinconia e speranza, di congedo ma nello stesso tempo di tranquillità. 

È il suo lavoro peggiore, ne siamo convinti. Ma è peggiore anche e sopratutto perché arriva dopo tre mezzi capolavori. Allora, magari tra qualche anno queste canzoni saranno già dimenticate, magari lo sarà anche il loro autore. Ma fino ad allora, credo che la cosa migliore sia godersele, nella speranza che ci possano rivelare ulteriori lati nascosti. E poi c’è il nuovo tour, questa volta full band, che da noi arriverà ad ottobre, con un’unica data all’Alcatraz di Milano. Chissà che dopo averlo ascoltato dal vivo, questo disco non inizi a piacerci un po’ di più…