Co2, commissionato per l’Expo a Giorgio Battistelli dal Teatro alla Scala, è innanzitutto un lavoro accattivante che strizza l’occhio al pubblico internazionale. E ai giovani; proprio per questo motivo ho scelto di andarlo a vedere non alla prima il 16 maggio ma alla diurna del 24 maggio, uno spettacolo della serie Scala Aperta a prezzi ridotti. Avevo avuto un’esperienza simile a Palermo con Senso di Marco Tutino, la cui prima era stata impedita da scioperi; alla pomeridiana, con 700 ragazzi, si avvertiva come il buon teatro in musica li avvincesse.



CO2 e Senso sono lavori molto differenti. Il primo è tratto da una novella risorgimentale di Arrigo Boito e da un notissimo film di Luchino Visconti. Il libretto, in inglese, di Ian Burton è tratto da un libro filosofico del Premio Nobel Al Gore. In 90 minuti, gli spettatori assistono a una conferenza scientifica sul cambiamento climatico intercalato con il racconto biblico dalla Genesi all’Apocalisse. Per rendere l’apologo comprensibile, vengono utilizzate tutte le tecniche della drammaturgia e della scenografia oggi disponibili. A partire dalla regia di Robert Carsen fino alle scene di Paul Steinberg e i costumi di Petra Reinhardt, nonché i giochi di luce di Peter van Praet e i video (anche tridimensionali) di Finn Ross. 



Non mancano riferimenti a leggende indù, momenti dedicati alla conferenza di Kyoto e allo tsunami in Thailandia. Nel finale, lo scienziato protagonista dell’opera si rivolge direttamente al pubblico chiedendo: «Se questa non è mia responsabilità, allora di chi è?». Il pubblico risponde con dieci minuti di ovazioni, dimenticando, forse, che la responsabilità della società iper-consumistica mostrata nell’opera è anche sua. Il complesso apparato scenico è inquadrato in un enorme iPad e la scrittura musicale è eclettica e facilmente fruibile: arie, ariosi, sprechgesang, canto vero, declamazione intonata. Buona la concertazione di Cornelius Meister, di livello i numerosi solisti.



A differenza di altri lavori di Battistelli che nella tradizione della literatur oper di fine ottocento- inizio novecento si basano su drammi, commedie ed anche film di successo, CO2 ci porta dalla Genesi all’Apocalisse passando per il Protocollo di Kyoto. L’opera ha una struttura simbolica, nove scene e un epilogo con un filo conduttore che è il rapporto tra uomo e natura: si parte da Adamo ed Eva e si arriva allo tsunami. A guidare lo spettatore la figura di uno scienziato, David Adamson, che tradotto significa “figlio di Adamo”. Racconta le deturpazioni che il mondo ha subito e le catastrofi naturali. C’è una danza degli uragani dove sfilano le maggiori calamità che hanno messo in ginocchio varie zone del pianeta negli ultimi 25 anni. E c’è quello che l’uomo ha provato a fare per tutelare la terra: il Vertice di Kyoto con i delegati che, discutendo di clima, parleranno ognuno nella propria lingua, inglese, arabo, russo e giapponese. Il finale racconta l’Apocalisse con quattro arcangeli che dialogano con quattro scienziati. 

Con Battistelli hanno lavorato il librettista Ian Burton ed il regista Robert Carsen. CO2 è la seconda opera di Giorgio Battistelli su un testo di Ian Burton dopo Richard III (2005). Il titolo fa riferimento alla formula chimica dell’anidride carbonica, sostanza indispensabile per i processi vitali della natura – quali, per esempio, la respirazione dell’uomo e degli animali e la fotosintesi delle piante – ma al contempo responsabile, insieme con altre, del surriscaldamento globale e dell’effetto serra che minacciano la Terra. 

E’ facile profetizzare che l’opera avrà grande successo all’estero mentre in Italia si farà di tutto per ignorarla. Si pensi a Senso; si sarebbe dovuta vedere a Bologna ed a Trieste (dove non è stata calendarizzata) mentre ha ricevuto ovazioni a Varsavia e mi si dice che sta trionfando in America. Oppure a Le Malentendu di Matteo D’Amico; tre recite a Macerata nel 2009 e poi, nulla. Oppure ancora Il Tempo Sospeso nel Volo di Nicola Sani e Franco Ripa di Meana, opera di grande impatto civile (tratta del viaggio verso la stragi di Capaci) che dovrebbe essere vista in tutte le scuole ma dopo la prima esecuzione si può vedere unicamente in DvD di servizio. Tranne Senso si tratta di lavori a basso costo con una musica fruibile: ciò che gli amministratori di teatri dovrebbero inseguire. Ed il Ministero costringerli a farlo. 

Ho ritrovato un mio articolo del 2006, anno  mozartiano. Mentre i teatri italiani inauguravano le stagioni all’insegna di Mozart (in occasione del 250esimo anniversario dalla nascita) oppure con titoli notissimi quali “Traviata” e “Fidelio”, alcuni dei maggiori teatri stranieri inauguravano con “prime” mondiali o europee di autori contemporanei. Ad esempio, a Londra l’English National Opera (2800 posti) è in “prima mondiale” con “The bitter tears of Petra von Kant” (“Le lacrime amare di Petra von Kant”) del compositore irlandese Gerald Barry. A Bruxelles, la stagione de La Monnaie è stata aperta da “Thyeste” novità assoluta di Jan van Vljimen e a Strasburgo (nonché negli altri teatri associati all’Opéra du Rhin nell’Est della Francia), da “Pan”, altra novità assoluta, questa volta di Marc Monnet. A Berlino, addirittura due novità, una “europea” e una “mondiale”, quasi in contemporanea: alla Deutsche Opera, nei quartieri occidenti della città, la prima europea di “Sophie’s Choice” (“La scelta di Sofia”) di Nicholas Maw (già un successo negli Usa) e, a due chilometri di distanza, nei pressi della Porta di Brandeburgo, la Staatsoper under den Linden proponeva la “prima mondiale” di “Seven attempted escapes from silence” (“Sette tentativi di fuga dal silenzio”), un libretto di Jonathan Safran Foer messo in musica da sette giovani compositori di Paesi e scuole musicali differenti. Oltreoceano, poi, inaugurare con prime mondiali di autori contemporanei è ormai prassi; al War Memorial Opera House di San Francisco l’avvio veniva dato il primo ottobre con “Doctor Atomic” di John Adams, una ricostruzione, a 60 anni di Hiroshima e Nagasaki del Manhattan Project che portò alla prima bomba atomica e del travaglio che comportò per gli scienziati in essi coinvolti. Quest’anno War Memorial Opera House apre la stagione con ‘Two Women’ di Marco Tutino trattoda ‘La Ciociara’ di Moravia.

Come spiegare il fenomeno? Soffermiamoci prima sugli aspetti positivi – perché l’opera lirica contemporanea “funziona”, ha un suo pubblico all’estero – per vedere poi quelli, negativi, che riguardano il nostro Paese. In primo luogo, specialmente nel mondo anglosassone, ci sono due filoni ben distinti: uno di teatro in musica tratto da drammi, romanzi o anche film di successo (alla stregua della “literaturoper” a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento); uno chiaramente sperimentale. 

Il primo è rivolto al grande pubblico: vicende note, musica accattivante, spesso diatonica, enfasi sul ritmo, Attenzione, non si è alle prese con dei musical alla Broadway ma con opere liriche vere e proprie (che seguono tutte le “convenzioni” dell’opera lirica: grande organico orchestrale, arie, duetti, concertati, voci assolutamente non microfonate e nella tassonomia abituale (soprano, mezzo, contralto, tenore, baritone, basso, con la riapparizione dei controtenori di epoca barocca). In Italia se ne è avuto un assaggio con “A streetcar named desire” di André Previn (dal dramma di Tennessee Williams) messo in scena al Teatro Regio di Torino, nonché con “The death of Kinglofer” di John Adams (sulla vicenda dell’Achille Lauro) allestito a Ferrara ed a Reggio Emilia e con A View from the Bridge di William Bolcom.

L’altro filone è più chiaramente sperimentale. Un esempio è “Seven attempted escapes from silence”, prodotto dell’ingegno di un enfant prodige Safran Foer (allora aveva 27 anni) i cui due primi romanzi – “Ogni cosa è illuminata” e “Molto forte, incredibilmente vicino” sono stati in testa ai best seller americani sin dalla seconda metà degli anni novanta (quando l’autore era adolescente); in traduzione hanno buon esito anche in Italia. Lo ho ascoltato alla sala Magazine della Staatoper under den Linden, dove ha enorme successo di pubblico, specialmente di giovani. Non c’è vicenda ma sette quadri in cui l’autorità (il carceriere, il medico, il burocrate, la spia) impedisce tentativi di fuga (di prigionieri, malati, impiegati, delatori) “dal silenzio” (ossia da una condizione kafkiana in cui non si comunica). Ciascun quadro ha un compositore ed un regista differente (tra i secondi nomi di rango come Peter Mussbach i compositori (Haddad, Bernhard Lang, Cathy Milliken, José-Maria Sanchez-Verdù, Annette Schmuck, Miroslav Srnka, Larisa Vrunch) sono tutti attorno ai 30 anni. Seguono sintassi orchestrali e vocali molto differenti: dalla dodecafonia rarefetta del primo (una sola battuta di 150 note con quattro consecutive riproposizioni frammentate) al ritmo ai confini con il jazz e con la musica afrocubana del settimo passando per un duetto “di coloratura” del quinto, per una struttura “ad arco” di quello centrale (il quarto), per eleganti accenti timbrici nel terzo, per il melologo nel secondo ed il concertati nel sesto. Ma lo spettacolo ha una sua integrità ed affascina per oltre due ore senza intervallo. Nel mondo anglosassone, i due filoni – quello tradizionalista e quello innovatore – hanno pubblici distinti ma che, grazie ad una buona cultura musicale di base ed ad una politica attenta, talvolta arrivano a confluire.

La sperimentazione e la tradizione confluiscono nelle esperienze più marcatamente europee. Se ne avuto un assaggio questa estate in “Julie” di Philippe Boesmans oppure ‘Un Retour’di Oscar Strasnoy, grande successo a Aix-en-Provence) oltre che a Bruxelles ed a Vienna ed ora in una tournée che mi auguro arrivi in Italia. Un altro assaggio è “The flight” di Jonathan Dove oppure i due ottimi lavori di Peter Oetvos (“Trois seours” e “Le Balcon”) visti in mezza Europa (oltre che negli Usa) ma mai approdati in Italia. 

Cosa frena i nostri sovrintendenti? La scarsa cultura musicale di alcuni e la mancanza di una vera politica musicale. 

Nel saggio “L’orchestra del Duce” (Utet, 2003), Stefano Biguzzi lamenta che l’interesse dei Governi per una politica della musica e della cultura musicale (e per trovare un equilibrio tra tradizione e sperimentazione) occorre tornare all’epoca fascista: il primo festival internazionale di musica contemporanea fu quello iniziato a Venezia nella seconda metà degli Anni Trenta – e Igor Stravinskij, che mantenne corrispondenza privata con Mussolini sino al 1942 – chiese di essere sepolto nel cimitero della città lagunare (dove in effetti sono le sue spoglie).

Quando ero adolescente i teatri seguivano ancora la prassi di commissionare un’opera contemporanea l’anno. Così venni affascinato dai lavori di Hans Werner Henze, da poco scomparso che ha sempre vissuto nei pressi di Roma. Ero melofilo già allora; arrivavo con gli occhi stanchi a scuola dopo una serata wagneriana (gli spettacoli al Teatro dell’Opera iniziavano alle 21,15 in punto e con Götterdämmerung si tornava a casa alle 3 del mattino) e il mio professore di filosofia mi diceva che il Teatro doveva essere trasformato in museo.