L’occasione dell’ultimo concerto del tour europeo di James Taylor che si è tenuto al Teatro degli Arcimboldi di Milano qualche giorno fa, ci dà l’opportunità – oltre che di parlare di grande musica –  di fare anche una riflessione più generale su cosa significhi essere competenti, professionisti e maestri a qualunque età. Con qualche ulteriore riflessione su questa ansia rottamatoria degli ultra sessantenni che si sta diffondendo da un po’ di tempo nella nostra società. 



Non è certo un mistero che in particolare nella business community internazionale (e non solo) è invalsa da molti anni l’abitudine di considerare sulla via del tramonto chi ha più di quarant’anni. E così pure nel mondo della ricerca.

Il razionale si poggerebbe sul fatto che i giovani avrebbero una mente più fresca e meno interessi nel difendere posizioni consolidate, di qualunque tipo siano. Il che può essere, ma una delle vere ragioni è la questione dei costi: su qualunque bilancio, i più vecchi pesano di più. Nonostante questo, non si può non ammettere che in particolare nella business community italica viga la gerontocrazia. Ad opera di manager che hanno perlopiù vissuto di rendite di posizione in ogni campo, senza saper innovare realmente, e percependo stipendi da nababbi e buonuscite stellari. Si capisce quindi come i trentenni e i quarantenni scalpitino… anche se in molti casi si scopre che hanno imparato dai capi più vizi che virtù (in politica come nelle imprese).



Cominciamo così a comprendere che l’età anagrafica non conta granché: a ben vedere i Nobel vengono dati in genere a studiosi molto avanti negli anni, che hanno impiegato una vita a sviluppare le loro ricerche, le loro filosofie, il loro modo di scrivere, progettare, disegnare.

Per converso, non mi pare che i giovani geni della finanza siano stati capaci di salvarci da una crisi epocale, anzi, sono certamente stati tra quelli che l’anno provocata.

Si capisce così che l’antagonismo giovane/anziano può rivelarsi una vistosa sciocchezza: perché può avvenire – anzi di solito avviene – che il giovane abbia poca esperienza e sbagli assai più spesso dell’anziano che le ha viste tutte. 



La questione quindi è più complessa, e proprio la riflessione sui grandi della musica può aiutarci a capire meglio.

Sere fa, agli Arcimboldi si è presentato James Taylor con una band in cui il più giovane aveva 56 anni e in diversi sfioravano i 70. Le sue canzoni hanno costituito la colonna sonora di tre generazioni, e avremmo potuto aspettarci un tranquillo sfruttamento della sua rendita di posizione. Invece no. Per chi conosce il suo repertorio, James si è presentato con arrangiamenti completamente nuovi, in cui hanno trovato spazio le doti di vere e proprie leggende del rock e del jazz come Michael Landau alla chitarra elettrica e Steve Gadd alla batteria. Ma non con smisurati assoli o intermezzi a loro dedicati, bensì con brevi, intensi e sapienti guizzi di genialità capaci di arricchire ulteriormente la ricca tavolozza del cantautore americano. Tutti, inclusi tre coristi di grande livello, sono con lui da almeno vento trent’anni, e grazie alla continua ricerca di nuove sonorità, hanno rinfrescato vecchi hits e presentato con maestria alcuni nuovi pezzi destinati a rimanere anch’essi nel tempo. James Taylor ha alle spalle 100 milioni di dischi venduti, ma anche una vita assai travagliata a causa di depressioni e droga: ora avrebbe mille motivi per sedersi sulla sua rendita di posizione. Invece no, si presenta ogni volta con gran garbo al pubblico – che lo ricambia con grande affetto – e con i suo 67 anni non si risparmia per niente.

Alla fine del primo tempo, mentre i suoi compagni vanno in camerino a rilassarsi un po’, lui scende in platea a firmare autografi, a parlare con il pubblico, ad assogettarsi a centinaia di selfie…finché dopo venti minuti è la sua band a richiamarlo sul palco per riprendere il concerto. Dovremmo chiedergli quindi di farsi da parte perché ha quasi settant’anni?

Dovremmo chiederlo anche ai Rolling Stones, a Paul McCartney, a Neil Young, a David Crosby, Eric Clapton, Keith Jarrett? Proprio nel jazz, la musica creativa, innovativa e improvvisata per eccellenza, più si va avanti nell’età più si migliora.

Una ulteriore dimostrazione che se ti sei mantenuto attivo e curioso, se hai continuato ad esercitarti e a studiare, da vecchio sei meglio che da giovane, come una buona bottiglia di Brunello di Montalcino. Keith Jarrett (anche lui ha sofferto e combattuto a lungo contro la sindrome da stanchezza cronica) oggi, a settant’anni suonati, ha due dischi in uscita, uno di musica classica e uno di jazz, il che lo obbliga – come racconta – a destreggiarsi con grande impegno mentale tra due universi musicali completamente diversi. A chi gli ha chiesto se la vecchiaia fa paura o è garanzia di maggiore consapevolezza, ha risposto: “A nessuno piace invecchiare, nel senso del decadimento fisico. Ma concordo con quanto ha scritto un maestro buddista: Solo l’età rivela il nostro percorso, il bisogno impellente di dire qualcosa. Di per sé, la gioventù non ha granchè da dichiarare…”.

Come se ne esce allora, da una contrapposizione che rischia di diventare generica e stucchevole? Proprio con l’esempio di James Taylor, che ha riunito intorno a sé più giovani e più vecchi di lui in una sorta di bottega medioevale dove il saggio condivide il suo sapere ma cerca nuove strade anche grazie al contributo dei suoi allievi.

La chiave è quindi nello scambio di esperienze, e nella giusta valorizzazione dell’anziano in quanto saggio e sapiente. E’ stato davvero bello vedere, all’inaugurazione di Expo, salire sul palco in rappresentanza delle maestranze che l’hanno costruita, tre lavoratori dai 20 ai 50 anni, guidati dal capocantiere…di 78 anni. Che altro c’è da aggiungere?