Con Turandot di Giacomo Puccini per l’inaugurazione della ‘stagione Expo’ (una serie di titoli del grande repertorio italiano, ed una prima mondiale pure essa italiana –  da maggio a ottobre), La Scala ha dato quel meglio di sé che non aveva dato con Fidelio il 7 dicembre 2014: questa Turandot  è uno spettacolo al tempo stesso innovativo ed affascinante, con un cast internazionale di interpreti tutti di altissimo livello, una concertazione che ha estratto dalla partitura convergenze importanti e  tinte molto belle ed un ‘finale’ (quello composto da Luciano Berio nel 2002) raramente eseguito in Italia. E’ in calendario sino al 23 maggio.



Il primo aspetto notevole è la messa in scena (regia  di Nikolaus Lehnoff, scene di Raimund Bauer, coreografia di Denni Sayers e soprattutto luci di Duane Schuler). Non siamo in una mitica e magniloquente Cina di cartapesta ‘dei tempi delle fiabe’ ma l’opera  viene presentato un dramma espressionista come lo si sarebbe concepito ai tempi in cui Puccini era impegnato nel lungo (ed incompiuto) lavoro. L’impianto complessivo ricorda la ‘secessione austriaca’ (Klimt) ed il visivo tedesco di quel periodo  (il movimento Die Brucke con artisti come Erich Heckel, Ernst Ludwig Kirchner, Karl Schmidt Rottluff ) e soprattutto l’allora nascente cinema da cui Puccini era molto affascinato (specialmente il Fritz Lang di ‘M’, evocato nei costumi del coro). La scena è allestita per facilitare le voci (come una vera cassa armonica). Le luci creano il clima ossessivo in cui si svolge un dramma denso di echi freudiani. Il trionfo finale di una dittatura benevola rispecchia l’entusiasmo con cui, negli ultimi anni di esistenza, Puccini (tessera No.2 del PNF di Viareggio) , aveva abbracciato il regime allora dominante in Italia,



Riccardo Chailly offre una concertazione davvero unica. A differenza di altre che o sottolineano gli aspetti melodici o pongono l’accento sugli ‘imprestiti’ da Debussy (ad esempio, le note che contraddistinguono la morte di Liù e la breve marcia funebre), Chailly mostra la convergenza di Puccini con l’innovazione musicale degli Anni Venti del secolo scorso: non solo Debussy ma anche Schoenberg e l’allora giovanissimo  Korngold (l’ascolto, in forma privata, del cui capolavoro aveva, secondo alcuni musicologi, sconvolto Puccini sino a quasi impedirgli di completare il finale di Turandot). Viene esaltato il cromatismo e gli accenni alla atonalità. In questa lettura musicale, ha un significato il ‘finale’ composto da Berio in quanto mostra come la musica europea degli Anni Venti presagisse innovazioni  anche degli Anni Ottanta. Ciò detto, preferisco ancora il ‘vero’ finale di Alfano (quello non tagliato e manipolato da Toscanini di solito eseguito) in quanto più ampio, più approfondito e maggiormente in linea con il resto dell’opera.



Ottimo il cast vocale. Nina Stimme ricorda ai meno giovani la grandissima Turandot di un alto soprano svedese: Birgit Nilsson. Non per nulla, lo ‘scioglimento’ della Principessa nel finale era concepito da Puccini come il parallelo della ‘trasformazione’ da odio ed amore di Isotta alla fine del primo atto dell’opera wagneriana. Aleksanders Antonenko imposta , correttamente, tutta la parte sul registro di centro , come richiesto da Puccini che lo considerava l’espressione massima della sensualità virile, ha un timbro chiarissimo e non esagera con gli acuti (il destro per facili esibizioni viene offerto da Nessun Dorma in cui Antonenko da prova di moderazione). Maria Agresta è, finalmente, una Liù drammatica non il solito soprano lirico un po’ sdolcinato di troppe produzioni. Tutti di alto livello gli altri (specialmente le tre maschere). Di altissimo livello i due cori.

Uno spettacolo di cui Milano può essere orgogliosa.