C’è un uomo sul palco, la chitarra a tracolla, i capelli ingrigiti dal tempo e una mano sul cuore. Ha voglia di dire thank you, e grazie, mille grazie. In questa splendida cornice che stasera è il teatro di Como. In questa, che, per una volta, non è “just another town along the road”, ma una “città per cantare”.



Non può conoscerli, quell’uomo, i mille cuori che stanno davanti a lui. Con le loro mille storie, le loro ferite e il desiderio di felicità che le accomuna. Non può conoscerle, ma le attraversa con le sue canzoni. E stringe mani, saluta quelli che può. Le storie che sono arrivate fin sotto il palco, alla fine dello show, che proprio seduti non si può continuare a restare. 



Lassù in cima, un altro ragazzo lo osserva. Si è fatto grande, ormai. E’ diventato uomo ed è invecchiato, i capelli si sono ingrigiti anche a lui. Ha cantato, col suo cuore, tutte le canzoni, per tutta la sera. Quel ragazzo, che aveva conosciuto l’uomo sul palco così tanto tempo fa. Diciott’anni o poco più, un disco che arriva a casa con un amico, che ha il suo regalo di Natale da donare. Tony, che ogni volta che veniva con un disco nuovo era un orizzonte infinito che si spalancava. Quell’anno era arrivato con “For Everyman” e il ragazzo aveva scoperto Jackson Browne per non lasciarlo più. Poi Tony si era ammalato, sindrome da immunodeficienza acquisita, l’avevano chiamata. AIDS, una malattia tutta da scoprire, un cammino verso il calvario ancora da percorrere per la medicina. E così, di lì a poco, Tony se ne era andato via, la sua vita spezzata come quella di tanti altri. Lasciando la sua storia e i suoi dischi a quel vecchio ragazzo, che ora ha i capelli grigi ma il cuore ancora tutto intero.



Non può conoscerla, Jackson Browne, la storia di Tony e del ragazzo che si è fatto grande. Ma in qualche modo sa che davanti a lui ci sono mille strade sincere. E allora canta per loro, questa sera. In questa splendida serata al Teatro Sociale di Como, una bomboniera strappata alla musica lirica, per essere prestata, per una volta, al rock. Canta vecchie e nuove canzoni. 

Quelle del disco appena uscito – Standing In The Breach – che sembra averlo restituito all’intensità dei primi, mai superati, dischi della sua carriera.  E poi tutti i classici di sempre.  Running On Empty, The Pretender, These Days, Fountain Of Sorrow, The Road, ci sono proprio tutti. Canta con quella voce, la sua voce. E non date retta a quelli che dicono che non è più come prima. E’ quella di sempre, invece, solo impreziosita un po’ di più dal tempo che è passato. Ancora incastonata, come un gioiello prezioso, lungo le note del pianoforte e delle sue chitarre. Circondata da un diadema, che è questa band che gira a mille.

Greg Leisz, una steel guitar per sognare, Shane Fontayne, una chitarra elettrica che spacca. “Non c’è nessuno che suoni come gli americani”, mi dice un amico giornalista, che la sa lunga di musica e di cuori, al termine dello show. Ed è davvero così. Perché questa musica non è qualcosa che si acquisisce, ma che devi avere dentro da sempre, scritta nel DNA, e che s’intreccia con l’esistenza fino a che diventa pronta per uscire. 

La band di Jackson Browne, oggi, è il valore aggiunto dei suoi concerti, ciò che permette alle canzoni di venire fuori con tutta la loro storia, belle come sempre. E quella che consente alle canzoni nuove di non apparire come qualcosa di inutile e già sentito, ma come conferma di un cammino nel solco di una tradizione che continua ad essere percorsa con stimoli nuovi ogni giorno. Come Standing In The Breach, per esempio, suonata questa sera insieme alla maggior parte delle canzoni del nuovo disco. Un brano che mostra come la sensibilità per le questioni politiche e sociali sia un abito d’empatia che Browne non ha mai smesso d’indossare. Nata sulle rovine del terremoto di Haiti e fatta di uno sguardo sulla ferita dell’uomo che non vuole smettere di guardare oltre: “E anche se la terra tremasse e le nostre fondamenta crollassero, noi ci riuniremo tutti e le ricostruiremo di nuovo. E accorreremo a salvare le vite di quelli che sono rimasti. Proveremo a rimettere insieme il nostro mondo, stando sulla breccia”.

Jackson Browne canta tutta la sera, quasi tre ore di show. A quasi 66 anni, sembra ancora giovane come quel volto stampato sulle magliette in vendita fuori dal teatro. Una setlist rodata, ripetuta con poche variazioni da un concerto all’altro. Sembra quasi scusarsi per questo, a un certo punto. Racconta di quella volta a Roma, quando, durante la seconda serata consecutiva, ha cambiato senza preavviso la scaletta. Non era andata così bene, alle prese con l’improvvisazione, confessa. Ma davanti a ventisei canzoni, suonate così, con dolcezza e malinconia, e con la faccia da beautiful loser dei tempi andati, nessuno ha bisogno di sentirsi raccontare giustificazioni. Ci si tuffa con gioia nella musica sincera, per una volta lasciando fuori dalla sala ogni dolore ed incertezza. 

E così si arriva in un soffio al bis finale, quella Take It Easy che entra, senza soluzione di continuità, in Our Lady Of The Well: “Se cerchi me, Maria, mi troverai nell’ombra. Sveglio o dentro un sogno, è difficile da dire. Se verrai da me, Maria, troverai quel che ho fatto. Un ritratto, per la Madonna del pozzo”. E Jackson canta quelle due canzoni con la stessa poesia di quando videro la luce, più di quarant’anni fa, in quel disco, For Everyman, che il ragazzo di diciott’anni diventato vecchio aveva sempre conservato nell’angolo più prezioso della sua casa. Il cerchio si è chiuso, finalmente, tra l’uomo sul palco e il ragazzo invecchiato, che stasera ha cantato nel suo cuore insieme a lui. E chissà se anche Tony, da lassù, avrà finalmente sorriso. E’ tempo di tornare a casa, ma c’è una certezza che si è fatta strada e che sa che è finito il tempo in cui correre nel vuoto. 

Chissà se è per quello che Love Needs A Heart, questa sera, Jackson Browne non l’ha cantata:  “Love needs a heart and I need to find if love needs a heart like mine/L’amore ha bisogno di un cuore ed io ho bisogno di sapere se l’amore ha bisogno di un cuore come il mio”. Non c’è più spazio per dubbi e timori, perché alla fine del viaggio c’è l’amore di una Madre. Rimane quello, sulla strada che porta verso casa. E davvero non c’è più bisogno di altro ora.