Mark Kozelek è il classico personaggio che o lo ami o lo odi. Famoso per i suoi atteggiamenti spesso burberi e sopra le righe, il temperamento lunatico che a volte sfoga col pubblico, le celebri polemiche contro alcuni colleghi (è diventata virale quella con gli War on Drugs di non molti mesi fa), hanno reso il musicista dell’Ohio un personaggio sì controverso, ma nello stesso tempo non privo di un certo fascino. Tutto si può dire di lui, in effetti, tranne che non abbia una personalità spiccata…
Anche il suo percorso artistico è interessante ma non è affatto per tutti i palati: dopo i quattro dischi all’insegna dello Slowcore registrati con i Red House Painters, il nostro ha intrapreso una carriera solista alquanto prolifica, fatta di dischi pubblicati a suo nome, collaborazioni con altri artisti (mi piace ricordare soprattutto “Perils From the Sea” in compagnia di Jim Lavalle) e il progetto Sun Kil Moon, che poi alla fine è sempre lui con alcuni musicisti di accompagnamento e che è anche quello con cui è in tour in Europa in questi mesi.
La sua scrittura è un altro punto di dissidio notevole: il suo stile minimale negli arrangiamenti, i suoi testi spesso prolissi, che sono un fiume in piena di racconti e sensazioni dove tutto, anche i dettagli più insignificanti acquistano un senso, non lo rendono proprio l’immagine della fruibilità. Impossibile apprezzarlo e comprenderlo appieno senza leggere i testi e anche così, non sempre tutto quello che ha fatto risulta digeribile, per via di un uso delle melodie che spesso passa in secondo piano rispetto all’urgenza delle storie da raccontare.
Se si riesce ad entrare nel suo mondo però, l’esperienza è quanto mai affascinante: Kozelek è uno che sa scrivere e ha tante cose di cui scrivere, la sua voce non può definirsi “bella” in senso lato ma sa trasmettere tutta l’ansia e l’urgenza di ciò che di volta in volta ci vuole comunicare.
Sarà per questo che Paolo Sorrentino, regista da sempre attentissimo all’universo musicale di qualunque genere, lo ha voluto nel suo ultimo film. Lo si vede in una delle sequenze di apertura, mentre suona e canta per gli annoiati ospiti di un lussuoso hotel in mezzo alle Alpi svizzere.
È stata un’esperienza che in qualche modo lo ha segnato, visto che ne parla in ben tre canzoni del nuovo disco (in “Bird of Flims” non ne dà una valutazione proprio lusinghiera) e anche durante la serata al Carroponte, ha detto che il giorno dopo sarebbe andato a vederlo e che di sicuro per lui sarebbe stata un’esperienza alquanto imbarazzante.
Ma veniamo a noi. “Universal Themes”, il nuovo album targato Sun Kil Moon, è uscito da pochissimi giorni. Ha ricevuto recensioni entusiastiche su tutte le testate che contano (Pitchfork su tutte, che ha anche pubblicato una splendida intervista realizzata da El-P dei Run the Jewels. Se masticate bene l’inglese vale la pena leggerla http://www.sunkilmoon.com/mk_press/interview_ELP_MarkKozelek.html) ed è stato definito un capolavoro, l’ennesimo della sua carriera.
In realtà, almeno secondo il sottoscritto, si tratta di un disco affascinante ma a tratti eccessivamente prolisso, che contiene otto canzoni tutte di considerevole lunghezza, nessuna delle quali risulta particolarmente orecchiabile a livello di melodie. Il precedente “Benji”, diciamolo senza problemi, sembrava su altri livelli ma non importa: con tutti i dischi che ha registrato, è difficile che raggiunga sempre il massimo. E poi non stiamo certo parlando di un lavoro da buttar via!
Ad ogni modo, Mark Kozelek lo sta presentando in giro per l’Europa e dopo essercelo perso al Primavera Sound della settimana prima, per concomitanza di orari con i Replacements, è bello poter godere di una comoda data vicino a casa, nella sempre splendida cornice del Carroponte di Sesto S. Giovanni, all’inizio della sua nuova stagione estiva.
Per la verità, era prevista pioggia torrenziale e l’alto numero di eventi annullati in questa sede ha fatto sinceramente temere il peggio e, detto fra noi, non mi aspettavo proprio di poter godere di questo concerto, ancor di più dopo aver dato un’occhiata fugace al cielo subito dopo il mio arrivo.
Questa volta siamo stati fortunati: nonostante tutti i timori della vigilia e nonostante lo stesso Kozelek che con cinica ironia ci ha salutati dicendo “Mi fa piacere che non sia piovuto. Per adesso.”, il tempo si è mantenuto clemente e siamo riusciti ad assistere all’intero spettacolo che era stato preparato.
Lo scorso anno avevo ammirato le canzoni di Sun Kil Moon in una scarna e suggestiva veste acustica, per solo voce e chitarra. Questa volta la proposta è più ricca: a questo giro infatti il songwriter dell’Ohio gira con una band di quattro elementi, di cui almeno due possono essere definiti ben più di meri turnisti. Alla chitarra c’è infatti Neil Halstead (Slowdive, Mohave 3) mentre alla batteria c’è Steve Shelley dei Sonic Youth. Due musicisti di due band leggendarie, amici di vecchia data di Mark, che si sono prestati più che volentieri a supportarlo in questo giro di concerti.
La formazione, a dirla tutta, è piuttosto strana: l’assenza del basso, due chitarre e ben due batterie, danno decisamente un’impronta poco convenzionale al sound anche se poi in realtà non è che si senta più di tanto, visto che i due drummer lavorano spesso e volentieri all’unisono.
Kozelek si divide invece tra il tamburo (che suona soprattutto nelle prime canzoni) e la chitarra elettrica, ma non disdegna di cantare qualche brano esclusivamente dietro al microfono. In questa veste, nonostante una presenza scenica non proprio da capogiro (soprattutto per chi è abituato da sempre a vederlo con una sei corde in mano) sembra completamente a suo agio e totalmente dentro le storie che sta narrando.
I cartelli che, appesi un po’ dovunque, intimano di non fare foto e di non riprendere, ci rammentano del carattere burbero e lunatico di Kozelek e non sono pochi i presenti che, con quel fascino tra il morboso e il masochistico che prende sempre quando siamo davanti a personaggi del genere, sperano che ne combini qualcuna delle sue per potersi godere con calma lo spettacolo.
In realtà, non accadrà niente di tutto questo: l’uomo di Sun Kil Moon è calmo e rilassato, sembra essere contentissimo di essere su quel palco e, nonostante dica a più riprese che, essendo quella milanese l’ultima data del tour, è contento di tornare a casa a rivedere gli amici e la fidanzata, non perde occasione di ribadire la sua gratitudine per chi è venuto a vederlo.
Non mancano comunque i momenti spiritosi: il gesto del “sei matto” ad un fan pescato a riprenderlo col telefonino, le parole di apprezzamento rivolte all’uomo della sicurezza posto sotto il palco (“Sei veramente un tipo tosto, ti voglio assumere, ho bisogno di avere un tipo tosto come te quando vado in giro per la strada, per proteggermi dagli stalker!” Il tutto, ovviamente condito con una buona dose di parolacce), che non sembra capire una parola d’inglese ma che sta al gioco divertito.
Poi, durante l’esecuzione di “Carissa”, incita il pubblico a fargli il controcanto nel ritornello e quando vede che la prima volta la reazione non è molto energica, minaccia dicendo: “Ricordatevi che ho il mio bodyguard con me, potrei farvi sparare addosso!”. Risate divertite e a questo punto il coro viene fuori chiaro e forte.
Ancora, ogni volta che la gente dimostra di conoscere la canzone che viene iniziata e la accompagna con un boato, finge di arrabbiarsi ed esclama: “Come diavolo fate a conoscere questo pezzo? Come fate a conoscere la mia musica? Non ho neppure una casa di distribuzione, in Italia!” E giù altre risate, a cui lui risponde con continui “Vaffa…”, reiterati anche quando qualche temerario, incoraggiato dal vederlo così in buona, coglie finalmente l’occasione per urlare “War on Drugs!” (Il riferimento è agli insulti che Kozelek rivolse alla band di Adam Granduciel perché durante un festival i volumi altissimi da loro usati coprivano a tratti il suo set acustico.).
Insomma, è un uomo che non ha problemi a rapportarsi col suo personaggio e ci gioca sopra più che volentieri, rendendolo parte integrante del suo show.
Show che, è bene dirlo anche se appare scontato, ha avuto dei contenuti musicali altissimi. L’ottimo livello della band era già una garanzia ma uno come Kozelek è già di per se in grado di fare la differenza col solo carisma della sua voce. Un narratore e un performer nato, uno che è in grado di farti immedesimare col carico emozionale delle storie raccontate, anche se non state esattamente capendo che cosa sta cantando.
La scaletta, nonostante il repertorio infinito che ha disposizione, non risulta particolarmente elaborata: si comincia con “Hey You Bastards I’m Still Here”, dal disco registrato col monicker Desertshore (quando si esibisce come Sun Kil Moon, Mark ha sempre suonato anche i pezzi dei suoi altri progetti) ma si passa presto ad “Universal Themes”, che è uscito solo da pochi giorni e che dunque non è ancora stato assimilato a dovere.
Dal vivo i brani suonati rendono bene, soprattutto il singolo “The Possum” ma anche la conclusiva “This is my First Day and I’m Indian and I Work at a Gas Station”. Due pezzi non facilissimi ma che hanno il pregio di raccontare il mistero della vita attraverso circostanze banali e quasi casuali della vita quotidiana.
Viene proposta una buona fetta anche del precedente “Benji”, un disco che, lo si capisce guardando Mark cantare i pezzi, fotografa forse meglio di altri l’attuale dimensione di Sun Kil Moon.
Una lenta e riarrangiata versione di “Carissa”, l’intima confessione di “I Watched the Film the Songs Remain the Same” e la carrellata di storie d’amore di “Dogs”, sono indubbiamente gli episodi di questo lavoro che più di tutti hanno deliziato una platea attenta e partecipe.
Nel finale, il nostro si lascia andare ad una nota di affetto sincero, quando dice: “Davvero, non me ne frega nulla di dove avete trovato la mia musica, sono solo contento che siate qui con me, stasera!”
Nei bis c’è un altro siparietto divertente, quando esprime il desiderio di volersi sedere e gli viene portato un fly case piuttosto alto, con tanto di ruote. Vi monta sopra, non senza l’ilarità e gli applausi della gente, dopo che un roadie lo ha pazientemente aiutato a bloccare le ruote. A quel punto, complice l’atmosfera più rilassata, qualcuno dalle prime file si azzarda a tirare fuori un telefonino per immortalare la scena.
Dopodiché, in piedi sulla cassa e con la sigaretta in bocca, intona “Caroline” (la canzone che ha dedicato alla fidanzata), bloccandosi con finta rabbia quando parte l’applauso di riconoscimento (“Non è possibile! Questa non potete saperla! È una delle mie canzoni più sconosciute!”). È una composizione lunga e per tutta la sua durata ce ne stiamo ipnotizzati a guardarlo e ad ascoltare, consapevoli che potrebbe essere l’ultima della serata.
Invece ne arriva un’altra: “Ceiling Gazing”, uno dei suoi pezzi più toccanti, uno di quelli che Sorrentino ha deciso di inserire nel suo film.
Un concerto meraviglioso, completamente diverso da quello dello scorso anno in solitaria e, pensandoci bene, molto più ostico musicalmente, avendo privilegiato nella scaletta due dischi dalle atmosfere oscure, con suoni spesso ruvidi e non molto orecchiabili.
Mark Kozelek o lo ami o lo odi, le vie di mezzo sono inesistenti, ma il non volerne riconoscere la grandezza sarebbe un gesto del tutto irrazionale.