“On the saxophone and tequila, Bobby Keys”. Così Mick Jagger introduce al pubblico il sassofonista morto nel dicembre del 2014 per complicazioni dovute a cirrosi epatica. Quella malattia che si prende quando si beve troppo, anche troppa tequila. Sono parole pronunciate prima dell’esecuzione live di Hony Tonk Women uno di quei brani caratterizzati proprio dal sax del musicista texano oltre a naturalmente a Brown Sugar che resterà sempre la sua signature song grazie al suo intervento poderoso di sassofono. Bobby Keys non c’è più come tanti altri eroi di quei giorni lontani, i giorni in cui, il primo maggio 1971, usciva l’album degli Stones “Sticky Fingers” forse il loro disco più perfetto e mitizzato in una lista di dischi straordinari. Si paga un prezzo per avvicinarsi così tanto al sole, come Icaro ha insegnato, e quei musicisti che in quei giorni quando il rock’n’roll era all’apice della “golden age” hanno pagato prezzi molto alti. Credete che a loro sia importato? Assolutamente no, perché quando sei dentro a quel vento impetuoso, quando sei “jumpin’ jack flash”, quando sei a colloquio con Dio tutti i giorni, il resto non ha importanza.



“Sticky Fingers” esce in questi giorni in una super versione de luxe con il disco originale rimasterizzato e altri due cd contenenti versioni alternative – ad esempio una spettacolare Brown Sugar in versione bluesy con Eric Clapton alla chitarra e Al Kooper al pianoforte – e un disco e mezzo dal vivo registrato a Leeds in Inghilterra nel marzo 1971 e al Marquee Club di Londra nello stesso periodo. Per la precisione: come sempre in operazioni del genere numerose le versioni disponibili. Nella edizione super deluxe è presente il cd col concerto di Leeds del 13.3.71 e un dvd con solo due brani, una specie di preview, dell’esibizione al Marquee di qualche giorno dopo (l’edizione completa uscirà a fine mese nella serie “From the vault”, per cui sono già usciti altri live storici della band).



Nelle versioni deluxe semplici c’è “solo” un cd con i cinque inediti di studio e cinque pezzi live registrati nei due concerti che suonarono al Roundhouse di Londra il 14.3.71.

Insieme ad altri dischi di quegli anni, diventa così la versione definitiva di un periodo storico mai più ripetuto da nessuno, neanche dagli stessi Stones. Un periodo in cui scrivere e cantare canzoni corrispondeva alla vita e musicisti e pubblico erano una comunità unica, dove non c’era divismo ma si condivideva il sogno che quel mondo immaginato dalla musica fosse un mondo alternativo possibile al cinismo, alla noia, alla menzogna dei genitori.



La storia ha insegnato che quel mondo non è stato possibile realizzarlo, anche se per poco tempo è sembrato possibile. Il fatto che certi sogni non diventino realtà non vuol dire che non valga la pena continuare a sognarli, anche perché costituiscono la natura stessa del nostro io, del nostro cuore. Chiudere la porta vuol dire lasciar morire quanto di più vero abbiamo dentro.

Una volta uno che di rock’n’roll sa una cosa o due, il musicista americano John Mellencamp, mi disse che quando gli Stones pubblicarono Satisfaction mettevano paura, oggi non è più così. “Sticky Fingers” mette ancora più paura di Satisfaction, ma è una paura diversa. Se Satisfaction infatti nella sua irruenza giovanile chiedeva l’impossibile, tutto e ora, urlando con l’urlo di Jagger “soddisfazione” contro il mondo che la negava (l’uomo alla radio che continua a blaterare inutili informazioni, la pubblicità televisiva che dice quanto e come bianca deve essere la tua camicia, la ragazza che ti dice, torna un’altra volta perché sto attraversando sconfitte su sconfitte), nelle canzoni di “Sticky Fingers” c’è una paura che si rivolge al cantante stesso, la paura della morte, la paura che è stato tutto un grande inganno. Non è il divertimento sfrenato di Brown Sugar (che non parla di eroina, ma di sesso) la chiave del disco, infatti.

Eppure anche in quei riff carichi di erotismo di Brown Sugar che riportano al mondo violento e sanguinario dello schiavismo,  nell’intrecciarsi pieno di mestizia delle corde di acciaio di Wild Flowers, nel pianto pieno di arroganza di Dead Flowers, un’ode a chi muore di eroina, c’è paura. Ecco perché “Sticky Fingers” è ancora oggi un disco vivo, pulsante, irrepetibile, supremo.

“Sticky Fingers” ai tempi rappresentò il completamento di un cerchio e di una scommessa cominciata sulle assi del Marquee Club di Londra anni prima, quando alcuni ragazzotti della borghesia bene di Londra si misero a scimmiottare i bluesmen americani. Il viaggio li avrebbe portati davvero nel profondo sud dove vivevano quegli uomini di colore, tanto che Brown Sugar, Wild Horses e Honky Tonk Women, quest’ultima uscita ai tempi solo su 45 giri, vennero davvero registrate in studi del profondo sud americano, i Muscle Shoals dell’Alabama, con gli Stones che sognando di diventare americani immaginari erano diventati davvero americani autentici. E quando in Dead Flowers Mick Jagger imita il dialetto contadino dei redneck americani, non sai se ridere di imbarazzo o godere di questa ennesima sfrontatezza.

Per compiere questo passo definitivo c’era voluto l’apporto di un chitarrista poco più che ventenne cresciuto alla corte del massimo esponente del blues inglese, John Mayall: Mick Taylor è quello che dal punto di vista musicale coordina e innesta dosi massicce di blues e di chitarrismo di classe in “Stick Fingers”, ascoltareSway, You Gotta Move (un blues da juke joint reso un canto ululante e demoniaco, del bluesman Fred McDowell) e Can’t You Hear Me Knockin’ per capire cosa abbiano perso gli Stones dopo che lui se ne andò. Non solo Taylor perché Jagger e Richards per la prima volta aprono i loro segreti a un manipolo di musicisti esterni, che danno quel di più che rende l’album unico: oltre a Bobby Keys, anche un ancora sconosciuto Ry Cooder, che per un attimo era sembrato dover diventare il loro nuovo chitarrista dopo la morte di Brian Jones, Jim Dickinson, Billy Preston e il pianista Nicky Hopkins. Tutti musicisti americani, non a caso. E’ grazie a questo che “Sticky Fingers” risulta anche il disco in un certo senso più sperimentale, come dimostra la lunga coda strumentale di Can’t You Hear Me Knockin’, dove Taylor e Bobby Keys duettano in modo esaltante sfiorando la fusion. Altrettanto sperimentale è la conclusiva Moonlight Mile, dove gli Stones ricorrono agli arrangiamenti barocchi di archi di Paul Buckmaster, lo stesso arrangiatore di Elton John.

Ma sono la droga e il senso di perdita che caratterizzano quasi tutto il disco, quasi gli Stones, sopravvissuti per miracolo alla tragica notte di Altamont in cui il sogno hippie era stato ucciso dalla lama di un coltello nella schiena di un giovane di colore, capissero che il loro tempo, e il tempo di tutti quei sognatori come loro, fosse ormai agli sgoccioli. Il testo di Sister Morphine, scritta un anno prima circa, era opera dell’allora compagna di Jagger, Marianne Faithfull, eroinomane, anche se ci vollero decenni prima che gli Stones le riconoscessero la sua parte. La canzone racconta con angoscia quasi insostenibile l’agonia di un uomo (o di una donna) in un letto d’ospedale, presumibilmente a causa di una overdose, e del suo desiderio di ricevere della morfina per avere sollievo dai suoi tormenti. Realismo, crudezza, nessuno sconto: mai gli Stones erano stati e mai lo saranno più così onesti e così veri con se stessi e con il proprio pubblico.

Gli Stones soprattutto non avrebbero mai più suonato con la purezza innocente con cui suonano durante Wild Horses. Una canzone che è un inno al fascino e alla bellezza della vita che sfugge tra le dita di una mano come acqua, cantata divinamente da Jagger con una malinconia spacca cuore, ha nel gioco delle tre chitarre (due acustiche, quelle di Richards e Taylor, e l’elettrica, ancora di Richards, sovprapposta) uno dei vertici assoluti della musica rock. Ascoltata in cuffia, non importa il cantato – comunque bellissimo –  le tre chitarre disegnano acquarelli di potenza sconfinata, si chiamano e si rispondono, improvvisano e piangono. E’ un dialogo definitivo, un dialogo impossibilmente rock. Chitarre così le possono suonare solo persone che hanno rubato la chiave del mistero di questa musica. “I have my freedom but don’t have much time, let’s do some living after we die” canta Jagger: che serve essere liberi se non si possiede il senso ultimo di ogni gesto, della vita stessa? Cerchiamo di vivere almeno un po’ dopo che siamo morti. Versi memorabili, versi di grandezza infinita. Versi di onestà totale. Versi che fanno venire in mente il finale di Easy Rider, il film cult dell’underground alternativo, uscito soltanto due anni prima, in cui i due protagonisti, nel momento in cui assaporano la massima libertà, muoiono ammazzati da due bifolchi del profondo sud.

“Sticky Fingers” uscì con una celeberrima copertina provocatoria curata da Andy Warhol, un paio di jeans con la zip della cerniera apribile. Cose che si potevano fare solo in quei giorni lì.

In tre anni, dal 1968 al 1971, la band inglese aveva inciso una “triplete” insuperabile che aveva raccontato giorno per giorno quel periodo storico tumultuoso e pieno di speranza così come le loro vite, da “Beggars banquet” a “Sticky Fingers” passando per “Let it Bleed”. Un anno dopo, nel 1972, sarebbe uscito “Exile on Main Street”, l’insuperabile canto del cigno per Jagger e soci. Come aveva detto John Lennon per i Beatles, anche per gli Stones il sogno sarebbe finito. Dopo sarebbe rimasta solo una buona dose di professionalità e il ripetersi ostinato e sordo di una formula che non aveva più nulla da dire se non nostalgia e finzione.