Forse siamo davvero alla vigilia di un cambio epocale. Lo avevano già preannunciato i media specializzati a fine 2014 che l’annata appena conclusa, come del resto anche quelle immediatamente precedenti, si sarebbe caratterizzata per l’assenza di un genere predominante all’interno del più vasto panorama rock. 



Poi vedi i Run the Jewels ben posizionati nel bill dell’edizione 2015 del Primavera Sound e intervisti un bravissimo artista, Francesco Caprai (procuratevi “Columns”, esordio del suo progetto Omake, non rimarrete delusi) e lui stesso, da sempre grande appassionato di “Black Music”, evidenzia questo improvviso interesse che un certo mondo indie rock sta incominciando ad avere verso l’hip pop, il soul e l’R&B in generale. 



E dunque se un artista come Kanye West, per quanto bravo, può apparire ancora piuttosto mainstream, la recente uscita di “To Pimp a Butterfly” di Kendrick Lamar, dal quale è stato tratto il video di “Alright” che sta spopolando in queste settimane, ha effettivamente fatto incetta di lodi sperticate anche all’interno di certi ambienti che sono solito bazzicare. 

Prima di Lamar, a onor del vero, c’era già stato D’Angelo. Di “Black Messiah”, suo nuovo lavoro in studio dopo quindici anni di silenzio, me ne aveva parlato, ovviamente in termini entusiasti, lo stesso Caprai. Qualche giorno dopo, mi sono reso conto che la copertina di “Voodoo”, il precedente multiplatinato album dell’artista di Richmond, Virginia, era una di quelle che all’epoca vedevo più frequentemente in vetrina nei negozi di dischi dove mi recavo puntualmente per comperare l’uscita metal di turno. 



Ma ormai sono un ascoltatore (più o meno) senza pregiudizi per cui, più curioso che mai, mi sono messo ad ascoltare questo “Black Messiah”. Apriti cielo. 

Sarò stato vittima anch’io delle suggestioni mediatiche delle varie Pitchfork o Rumore, non ne ho idea, ma di sicuro, io che sono da sempre a digiuno da questo tipo di sonorità, ne sono rimasto folgorato. Io, che quando Springsteen nei suoi ultimi tour inseriva porzioni abbondanti di Soul ed R&B, applaudivo ma piuttosto tiepidamente. 

Non ho mai ascoltato per intero un disco di Marvin Gaye e neppure uno di Curtis Mayfield. Ho solo una vaga idea di chi sia Stevie Wonder e conosco, giusto per sentito dire, un disco di Prince che si chiama “Purple Rain”. Mi sembra giusto dirlo perché detesto fare sfoggio di cose che non so. Io, in questo campo, sono un perfetto ignorante e probabilmente lo rimarrò a vita: troppo breve il tempo a nostra disposizione, troppo lunga la lista di titoli che mi piacerebbe ascoltare prima di morire (per non parlare di quelli che ancora usciranno!). 

Ciononostante, l’altra sera ero anch’io all’Estathe Market Sound, per la seconda data italiana di Michael Eugene Archer, in arte D’Angelo, e dei suoi The Vanguard. 

Cominciamo col dire che la location non è niente male: l’hanno inaugurata a maggio, in occasione dell’apertura di Expo 2015, ed è un’area piuttosto ampia collocata all’interno dei Mercati Generali di Milano, equipaggiata di bar e diversi stand gastronomici. La speranza è che possa rimanere stabile anche dopo ottobre, in una città in cui tutti i posti per fare musica dal vivo stanno chiudendo in uno stillicidio inesorabile. 

La serata è di quelle caldissime (dopotutto questi sono giorni di afa inesorabile), nonostante la brezza che di tanto in tanto spira leggera e le zanzare non danno tregua. Il pubblico non sembra numerosissimo o forse, più semplicemente, il posto ha una capienza molto maggiore rispetto alle esigenze di certi artisti. 

L’attesa per l’inizio è snervante, un po’ perché l’evento era stato annunciato per le 20.30 (ma credo non ci abbia creduto nessuno), un po’ perché l’organizzazione ha pensato bene di mettere in rotazione infinita sugli schermi laterali due, dico due, spot pubblicitari dedicati ai partner commerciali della location (di cui uno, ovviamente, era Estathe, che nel momento in cui sto scrivendo odio furiosamente). 

Quando le grida di esasperazione si fanno più insistenti, ecco che dai diffusori parte quella musica che ci è stata negata per tutto il tempo precedente. Un lungo mash up di brani soul sicuramente voluto dallo stesso D’Angelo ma che arriva certo nel momento meno opportuno. 

Ad ogni modo, dopo circa un quarto d’ora, ecco che si materializzano i The Vanguard, che poi altro non sono che la versione live della band che ha suonato su “Black Messiah”. 

Si parte alla grande con “It Ain’t Easy”, il brano che apre il disco e dispiace subito notare che, nonostante la potenza e la ricchezza del suono, la resa non sia proprio il massimo: i volumi sono infatti piuttosto impastati e non tutti gli strumenti si distinguono alla perfezione (chitarre ritmiche e tastiere sono forse le più penalizzate, da questo punto di vista). 

Al di là di questo inconveniente (che comunque è poca roba, stiamo parlando di una resa più che accettabile), tutto il resto fila liscio. La band è composta da dieci elementi, tra chitarre, tastiere, cori e fiati e credo sia superfluo dire che suona in maniera impressionante. Del resto, quando dietro le pelli hai Chris Dave e alla chitarra Jesse Johnson, entrambi più volte con Prince, qualcosa si può intuire. Aggiungiamo che al basso c’era un certo Pino Palladino (The Who, Eric Clapton, Mark Knopfler, John Mayer ma la lista è davvero chilometrica) e abbiamo detto tutto. O quasi. Perché i restanti membri non sono da meno, in particolare una fantastica Kendra Foster nel ruolo di corista, precisa e sensuale, che ha dato un tocco notevole anche a livello coreografico. 

D’Angelo, dal canto suo, è semplicemente fenomenale. Dal vivo il tutto appare molto più potente, dinamico, oserei dire quasi rock e lui fa il bello e il cattivo tempo in modo perfettamente naturale, dividendosi tra chitarra e tastiera, spesso concentrandosi solo sulla voce e cambiando abito ogni due canzoni, come uno showman navigato (mai troppo appariscente però, con il nero a fungere da colore predominante). 

Se c’erano ancora dei timori che dopo il lungo digiuno e l’abuso di droghe il suo stato di forma ne avesse risentito irrimediabilmente, si può stare assolutamente tranquilli: per quasi due ore canta, salta e corre su e giù per il palco, coinvolgendo un pubblico che, di suo, ha ben poco bisogno di essere coinvolto. 

Fa caldissimo, ma non si può stare fermi, tanto è irresistibile la miscela di Soul, Funk e R&B che si sprigiona a ritmo inarrestabile. Lo show è infatti serrato e non lascia un solo attimo di tregua, coi pezzi che si susseguono uno dopo l’altro senza nessuna pausa. 

Ogni episodio viene poi dilatato a dismisura, con assoli, continui Stop n’ Go e citazioni di brani della tradizione, trasformando un semplice concerto in un’autentica festa collettiva. 

Per questo motivo, è il fluire incessante della musica che passa in primo piano, piuttosto che i brani in scaletta (che sono effettivamente pochini). Si privilegia come era prevedibile il nuovo disco: oltre al brano d’apertura arrivano anche una delicata versione di “Really Love”, introdotta dalla chitarra spagnoleggiante di Johnson, “The Charade”, con D’Angelo che suona la chitarra e che in questa veste live guadagna una cattiveria notevole; molto bella anche “Until It’s Done”, suonata come primo bis, mentre la palma della serata va senza dubbio a “Sugah Daddy”, suonata in una versione pazzesca, fusa con una “I Need Somebody” lunghissima e irresistibile, il momento in cui D’Angelo e i The Vanguard hanno preso e portato via tutti, ma veramente tutti.  

Pochissimi episodi del passato, ma tra questi “Spanish Joint” e ancor di più “Brown Sugar”, title track del disco d’esordio, hanno rappresentato indubbi highlights. 

Finale affidato, senza poche discussioni a “Untitled (How Does It Feel?”), il primo, enorme hit single di Archer, non a caso accolto con un boato. È una versione fiume, con il singer che fa apposta a ritardare il suo avvicinamento al microfono, per prolungare l’attesa e dare spazio alla band. Poi, dopo circa dieci minuti, i The Vanguard si rituffano nel giro principale e ad uno ad uno abbandonano il palco, non senza prima essersi recati ad abbracciare il proprio leader. Il quale, infine, rimane da solo alla tastiera e va avanti a cantare il ritornello ancora per un po’, prima di lasciare definitivamente lo stage.   

Dopo un concerto così, si capisce che forse è vero che i generi sono un limite artificioso. Al di là dei gusti personali (e qui non si sta certo parlando del mio genere preferito), era impossibile non farsi conquistare da quel che è avvenuto l’altra sera a Milano. 

Forse è proprio vero che sta cambiando tutto: che spariscano pure le etichette e rimanga solo la musica, quella suonata col cuore e che va dritta al cuore. Potremo solo guadagnarci.