Trent’anni fa in questi giorni avevo un motorino Ciao giallo ereditato dai miei fratelli maggiori e una settimana di ferie, la prima del mio primo lavoro, dopo aver effettuato due anni di servizio civile, che allora o facevi il militare o facevi quello, altrimenti andavi in galera.
Era luglio, ero a casa mia in Liguria e andavo su e giù dalla casa dei miei genitori in collina alla spiaggia, godendo la brezza pura e profumata di quelle terre, dopo un anno di nebbia e smog milanesi.
Quel 13 luglio in particolare me ne stavo fregando di un evento planetario che sarebbe entrato negli annali della storia della musica non tanto per la qualità musicale, ma per il gigantismo di un concerto come mai si era tentato in precedenza. Dallo stadio di Wembley a Londra al JFK di Philadelphia tutto il mondo si sarebbe sintonizzato per la prima diretta musicale planetaria, una non stop di quasi diciotto ore in nome della beneficenza davanti a due miliardi di telespettatori. La madre di tutti i concerti di beneficenza, diventati poi negli anni una iattura di buonismo preconfezionato, era stato quello per le popolazioni del Bangladesh sterminate dalla carestia che George Harrison aveva organizzato il primo agosto 1971 con le massime star dell’epoca, da Bob Dylan a Eric Clapton. Il fatto che l’incasso fosse stato bloccato per decenni dalla finanza per la gestione disinvolta di alcuni degli organizzatori avrebbe dovuto dirla lunga sull’ambiguità e la difficoltà di questo tipo di eventi.
Per Bob Geldof, fino ad allora un semi sconosciuto cantante irlandese, leader di una band, i Boomtown Rats, che aveva sfornato un solo hit, l’inquietante dedica a una ragazzina autrice di una strage, I Don’t Like Mondays, perché come aveva spiegato lei, “le davano fastidio i lunedì mattina”, quanto successo a Harrison non fu motivo di tirarsi indietro. Insieme ad alcuni colleghi alcuni mesi prima aveva ideato un singolo, Do They Know It’s Christmas Time che radunava rock star inglesi vecchie e giovani, che aveva dato la stura a quello che sarebbe diventa il più grande concerto di tutti i tempi, il cui ricavato sarebbe andato alle popolazioni dell’Etiopia stremate dalla fame. A quel singolo, in un moto di umanitarismo incontenibile, avevano replicato i colleghi americani con la soporifera We Are the World. In quell’estate del 1985 la cosa più importante per tutti sembrava essere una cosa sola: salvare il mondo.
Al sottoscritto, che viveva una fase di allontanamento e di disinteresse per la musica rock, in quegli anni 80 così diversa da quella che aveva amato negli anni 70, del Live Aid – così si chiamava il concertone – non poteva fregargliene di meno. I video clip musicali, con quel loro incedere plastificato, le acconciature improponibili, i nuovi eroi musicali, Duran Duran, Madonna e Spandau Ballett per intendersi, la crisi profonda attraversata dagli eroi degli anni 60 e 70, tutto aveva contribuito ad allontanarmi dalla musica.
Tornai a casa nel tardo pomeriggio dalla spiaggia e nonostante tutto accesi la televisione: era già cominciato il collegamento con Philadelphia – nelle intenzioni degli organizzatori un passaggio di testimone, sottolineato dall’impresa perfettamente yuppie in perfetto stile con il decennio di Phil Collins, che prese un Concorde e dopo essersi esibito a Londra con Sting volò negli Usa per esibirsi con i Led Zeppelin. Sullo schermo televisivo apparvero i Beach Boys, che non erano più i ragazzi della spiaggia di vent’anni prima, ma dei maturi californiani miliardari imbolsiti. Che tristezza, pensai. Spensi il televisore, cenai e tornai fuori, dove mi attendeva la vita notturna al mare.
Tornato a casa, accesi comunque ancora una volta il televisore, era mezzanotte passata, e feci in tempo a vedere Eric Clapton in una bella versione del suo classico, Layla. Poi mi addormentai. Neanche il pensiero che lo show sarebbe stato chiuso dal mio idolo Bob Dylan, per l’occasione accompagnato da Keith Richards e Ronnie Wood dei Rolling Stones, un terzetto sulla carta memorabile, mi tenne sveglio. Seppi il giorno dopo che non mi ero perso niente, e anzi la loro sarebbe stata una delle apparizioni più imbarazzanti dell’intero Live Aid, con Wood completamente ubriaco, Dylan impossibilitato a sentirsi perché senza monitor sul palco a eseguire pezzi improbabili per l’evento stesso.
In realtà, qualche ora prima avevo fatto in tempo a beccare anche qualcos’altro, qualcosa di folgorante. Nonostante sfoggiasse anche lui un taglio di capelli per il quale si sarebbe vergognato fino ai giorni nostri, vidi l’esibizione di Bono e degli U2. Allora la band irlandese aveva appena sfornato il suo più grosso hit fino a quel momento, la straordinaria Pride (In the Name of Love) e benché la scena musicale del decennio mi procurasse solo noia e fastidio, sentivo che quel gruppo aveva le carte per far resuscitare la musica rock. Quell’esibizione a Wembley avrebbe confermato tutto ciò.
A Philadelphia li aveva presentati Jack Nicholson, a Londra il piccolo Bono con un cappello degno di Halloween in testa, ci tenne a precisare che erano “una band irlandese, arriviamo da Dublino, Irlanda”. Una dichiarazione di intenti, il richiamo orgoglioso alle loro radici. Per questo cominciarono il loro set che doveva essere di tre canzoni con Sunday Bloody Sunday, la maledizione degli irlandesi nei confronti degli inglesi assassini. Ma il pubblico londinese non era interessato a questo, Wembley era già tutto dalla loro parte. Il secondo pezzo in scaletta era un brano relativamente oscuro, Bad, che però gli U2 amavano trasformare in una serie di citazioni della storia del rock. Una canzone che parlava della lotta contro l’eroina, in quel giorno assunse il significato di essere una canzone impegnata contro tutte le difficoltà della vita, carestia inclusa: “If I could, I would let it go, this desperation, dislocation, separation, condemnation, revelation, in temptation, isolation, desolation”.
Bono attaccò con la citazione di Satellite of Love di Lou Reed, mentre il riff ipnotico di The Edge faceva muovere tutti i 70mila presenti.
Per un gruppo il quale ha sempre avuto nel rapporto diretto con i fan, a cominciare dal nome, una delle motivazioni principali, suonare quel giorno su una pedana altissima con il pubblico lontano e separato da transenne quasi militari, non era una bella cosa. Fu così che Bono cominciò a indicare una delle tante ragazzine che erano lì, schiacciate alla transenna, invitando gli uomini della security a farla uscire. Fu una operazione difficoltosa, tanto che Bono spazientito si buttò di sotto per aiutare a prenderla. Mentre la band continuava il ritmo pulsante, Bono strinse la ragazzina al petto e si mise a ballare con lei pochi secondi. Fu subito chiaro che stava succedendo qualcosa di non previsto, di improvvisato e proprio per questo di emozionante. In seguito si venne a scoprire che la ragazza era lì per vedere i suoi idoli che non rispondevano al nome degli U2, ma a quello degli Wham! di George Michael. Non fu importante: del tutto stordita per quanto aveva vissuto in quei pochi secondi, la giovane tornò oltre alle transenne mentre Wembley esplodeva di entusiasmo. Altre due ragazze erano salite sul palco nel frattempo, e Bono ebbe tempo di abbracciarle e baciarle. In quella manciata di secondi il rock era tornato a essere una cosa viva, trascendente, commovente.
Ormai il tempo a disposizione stava finendo, in programma era il terzo brano, l’esecuzione dell’hit del momento,Pride (In the Name of Love) che invece non venne mai eseguita. Preso dall’entusiasmo lui stesso, Bono si era messo a improvvisare una piccola storia del rock, con le citazioni di Ruby Tuesday degli Stones, Sympathy for the Devil sempre degli Stones, poi Walk on the Wild Side di Lou Reed. Fu un momento salvifico, fu un momento da tasso emozionale così alto che gli U2 mi sembrarono i salvatori del rock in missione per conto di Dio. Fu soprattutto spontaneità, nata e finita in quel momento e che in tanti dopo hanno provato a imitare.
In seguito si venne a sapere che The Edge e gli altri della band erano furiosi con Bono per aver impedito l’esecuzione del loro brano più importante che avrebbe permesso loro di sfondare in tutto il mondo, se lo avessero eseguito davanti a due miliardi di persone. Bono se ne tornò a Dublino convinto di aver rovinato tutto e di essere solo un perfetto idiota. Nei giorni successivi però tutta la critica mondiale fu d’accordo nel ritenere l’esibizione del gruppo irlandese il momento più alto di tutto il Live Aid, insieme ai Queen (che non avevo visto e che non ho ancora visto trent’anni dopo). L’obbiettivo di fare degli U2 il gruppo rock più importante del mondo era stato ottenuto lo stesso.
Commentando il Live Aid anni dopo, Bono avrebbe espresso perfettamente come nella musica, ma in ogni cosa della vita, è solo lasciando che sia il cuore a dettare l’agire e non la pianificazione, la chiave dei momenti più belli e riusciti. “Un sound pessimo, un taglio di capelli imbarazzanti e non suonammo neanche il nostro brano più importante perché il cantante si era messo a fare lo scemo con gli spettatori. Volevano cacciarmi dal gruppo e invece finì per essere uno dei giorni più importanti della nostra carriera. Spiegatene il perché se ne siete capaci. Chiedetelo a Dio, solo lui probabilmente sa perché”.
Per quanto mi riguarda, avrei ricominciato a comprare dischi e andare ai concerti. I bambini dell’Etiopia invece stanno ancora morendo di fame: da quell’audience di quasi due miliardi di persone si tirarono fuori soltanto 150 milioni circa di dollari al netto di tutte le spese, Concorde di Phil Collins compreso. Ma questa è un’altra storia.