John  Hiatt sale sul palco del Carroponte verso le 22.10: camicia a quadrettoni fuori dai pantaloni e una paglietta in testa. sembra un americano in vacanza a Rimini. Sorride. Un migliaio di persone ad aspettarlo, scaldate al punto giusto dai bravissimi Reverend and the Lady, duo di apertura di ispirazione jazz-blues di gran personalità.



Attacca subito con “Your Dad Did” da “Bring the family” del 1987, l’album che gli diede notorietà mondiale e da cui l’artista di Indianapolis trarrà quattro brani nell’arco della serata su 15 in totale, un numero perfetto per un greatest hits, come di fatto sarà il concerto. 

E’ accompagnato dai The Combo in versione rimaneggiata per la data milanese: assente John Coleman alle tastiere. Nathan Gehri  al basso sostituito da Dave Ranson, storico bassista di John Hiatt della fine degli anni 80. 



La voce di Mr. Hiatt ci mette un po’ a scaldarsi e va da sé che non possa più essere la stessa di quando aveva 30 o 40 anni, ma questo tema dei cantanti che dopo i 60 anni non hanno più la voce di prima è un argomento che ormai appassiona tutti al punto che a volte hai la sensazione che ci sia chi va ai concerti più per nostalgia o perché deve, piuttosto che per godersi la serata. Ad ogni modo, la soluzione che Mr. Hiatt ha trovato per combattere l’inevitabile invecchiamento della voce è originale. Ha infatti affiancato ai bravissimi Combo un ottimo e giovane background vocalist, di cui sinceramente non ricordiamo il nome, che oltre a fare le seconde voci lo supporta con grande intelligenza e discrezione in particolare sui finali delle frasi cantate ed in alcuni punti dove la voce del “vecchio” John arriva a fatica.



E’ rimasto, questo sì, il falsetto a tratti stridulo che ne caratterizza parte del cantato da sempre. Suono e musicisti ottimi, ma onestamente ci aspettavamo qualcosa di più in termini di nitidezza dell’impianto audio. Chitarre, banjo e mandolino suonati da Doug Lancio con cui John collabora già da qualche anno e che ha prodotto il suo ultimo disco. In spolvero da subito l’ottimo chitarrista di Nashville con “Detroit Made”  e “Perfectly good guitar”, che seguono il brano di apertura. Rock di classe, come è noto. 

Quarto brano è “Face of God” una delle sole due canzoni in scaletta estratte dal suo ultimo disco “Terms of my surrender”. L’altra sarà “Long Time Coming”. Durante “Face of God” ci sembra che John voglia chiaramente scandire alcuni versi per dirci qualcosa: “They say God is a devil, until you look him in the eye”  (“Dicono che Dio sia un diavolo, finché non lo guardi negli occhi”). Lascia pensare a qualcosa di molto personale che l’autore vuole comunicare con la dovuta espressività anche dal vivo. Dice ancora il testo: “Tell me how much more suffering before you see the face of God?”. Quanto è necessario soffrire prima di poter vedere il volto di Dio? Sembra chiedere il volto segnato dalle rughe di John Hiatt. E la voce che a tratti balena nel buio della notte milanese come una lama tagliente che ti trafigge lo stomaco.

Con quella faccia che a 63 anni lo fa assomigliare un po’ s Neil Young e un po’ a Clint Eastwood non puoi non credere a quello che ti dice. Il suo volto è come la sua voce oggi, senza mezze misure. Bassa e cupa o alta e stridula come quella di un vecchio, sostenuta solo in parte dall’abilità tecnica del consumato professionista. 

Si prosegue poi con “Paper Thin” dall’album “Slow Turning” del 1988 e con “Real fine Love” da “Stolen Moments” del 1990. Su quest’ultimo brano accade la magia della serata, poiché John si rende conto di avere più voce di quanto pensasse e inizia a tenere in lungo le note di chiusura di frase, inizia a cantare in un modo nuovo e con una ritrovata forza. Gioca col falsetto e si diverte a doppiare la voce del corista con cui si stabilisce una tacita complicità. A fine canzone si guardano d’istinto a vicenda e si indicano col dito, volendo dare reciproca evidenza dell’abilità canora dell’altro. Insomma…. è bello vedere come John si diverta ancora a suonare in giro per il mondo e come accada ancora qualcosa su quel palco. 

Si va avanti principalmente con brani vecchi di almeno di 20 anni, come “Tennessee Plates”, ancora da “Slow Turning”, con la chitarra di Doug Lancio in evidenza. Momento folk con “Crossing Muddy Waters” e poi “Cry Love” (1995, da Walk on), Long Time Coming, come si diceva prima estratto dell’ultimo lavoro, seguita da “Drive South” (“Slow Turning”, 1988) che lancia gli ultimi due brani in scaletta, entrambi dallo splendido “Bring The Family”, ovvero “Thing Called Love” e “Memphis in the meantime”. 

In alcuni momenti John Hiatt ha anche giocato con il pubblico dividendolo in due cori edinvitandoli a cantare con lui. 

Non esita troppo per risalire sul palco Mr. Hiatt e chiudere la serata con due bellissimi bis, ovvero “Have a little faith in me” e la canzone-dedica a BB King “Riding with the king”, forse la cosa più bella della serata. Poi scende dal palco, con un sorriso ancora più largo di quello con cui è salito. Chapeau. 

Insomma, un bel concerto anche se John Hiatt ha dato a tratti la sensazione di fare niente di più e niente di meno di quello che ci si aspettava da lui. Ma lo ha fatto divertendosi. Cosa non scontata affatto. E semmai qualcuno avesse da ridire sulla tenuta di questi veterani del rock bè, allora vale la pena citare il verso finale di “Face of God” dello stesso Hiatt: “Now take my shit, baby. Why don’t you tell me what you got?” .

(Francesco D’Acri)