Villa Arconati a Bollate è un posto magico. Già solo entrando si percepisce un senso di tranquillità e di bellezza, via via amplificato dall’enorme giardino, che profuma di borghesia del seicento. In questa cornice suggestiva, i Buena Vista Social Club han fatto un gran concerto.

L’orchestra di musica cubana è un grande carrozzone a gestione familiare, o così sembra. Perché anche se i membri originali, quelli che hanno inciso il disco del ’97 che li ha portati al successo, sono quasi tutti scomparsi, lo spirito rimane lo stesso. Non sono legati alla personalità dei singoli per come noi siamo abituati, ma sono più vicini a una scuola del divertimento. Perché loro si insegnano a vicenda i brani, i trucchi e tutto quello che si impara dopo decenni passati a suonare uno strumento. Così facendo si ha un costante rinnovamento dei musicisti, ma lo spirito rimane lo stesso, perché la tradizione persiste. Grazie a questo sottile filo che li lega tutti, quella che ha suonato lo scorso 14 luglio a Bollate non è un cover band dell’orchestra cubana, ma proprio la stessa dell’album di quasi vent’anni fa. I musicisti più giovani tirano, tengono il ritmo serrato e sono le colonne portanti della band, mentre quelli più anziani e “storici” sono liberi di divertirsi come han sempre fatto. Perché alla fine, ballare e far ballare così è una faccenda seria.



Quella di ieri sera era una tappa dell’Adios Tour, il canto del cigno di un’orchestra che sa quel che ha fatto, e vuole divertirsi un’ultima volta. Nel farlo c’è anche spazio per salutare i compañeros che se ne sono andati, per un adios ancora più corale.

Il concerto inizia verso le 21.30, mentre il sole calava e le nuvole si coloravano di tutti i colori del tramonto milanese. In un clima di trepidante ma pacata attesa, il piano inizia a suonare da solo. Sullo schermo alle spalle degli strumenti scorrono le immagini del pianista originario, e tutto si tinge di malinconia. L’attimo dopo il palco si riempie di musicisti di tutte le età, tutti vestiti come fossero appena usciti da un bar cubano durante gli anni d’oro del comunismo. 



Il trombone inizia, forse un po’ zoppicante perché è da solo, ma appena entrano le percussioni, il contrabbasso, il piano, le trombe e la voce tutto è come illuminato, nuovo di zecca e pronto per noi. Nonostante la timida partecipazione del pubblico, l’atmosfera si scalda sempre di più. Il sole è ormai definitivamente andato, e l’unica luce arriva dal palco e dal riflesso dei faretti sulle trombe. A turno tutti gli strumenti possono fare il loro assolo. Ma rimane l’idea di un tutti, perché anche durante questi momenti più virtuosistici gli strumenti non scompaiono del tutto, ma si abbassano di volume, come a creare un tappeto sonoro sempre pronto ad aiutare il compagno in difficoltà. Il concerto avanza, incalzando sempre di più nell’afosa notte milanese, portando una voglia di vivere tutta cubana. 



Poi sul palco sale Eliades Ochoa, il leggendario chitarrista cubano, che da solo inizia a trascinare tutta l’orchestra. Inizia con una devastante versione de “El Carrettero”, una folle cavalcata latina lanciata a bomba dal palco di Villa Arconati. 

Non ballare è impossibile, e la danza comincia. Ma non si balla scatenandosi e perdendo la testa, lo sguardo di tutti è sempre fisso sul palco. Tutti sono ipnotizzati da quei nonnetti che, facendo ciascuno una cosa piccolissima, creano un ritmo incredibile. Anche solo a guardare come si muovono sul palco ci si perde, c’è chi balla da solo, chi a due a due, ci sono le mani di uno che sfrecciano sulla chitarra, le braccia di un altro che abbracciano il contrabbasso, e così via a creare un’unica grossa danza. 

Tra gli applausi del pubblico e dei musicisti, dopo un altro paio di pezzi il chitarrista lascia il posto sul palco alla leggendaria Omara. Cantante storica dell’orchestra, voce potentissima e ancora giovane, nonostante lei sia un pezzo vivente della storia musicale cubana. Inizia con calma, accompagnata solo dal piano, e per un momento il sentimento va di pari passo con lo stupore e la bellezza. Finita il brano rientrano tutti, e la festa ricomincia, alternando brani dal loro primo album a quelli del più recente “Lost and found”, come l’incredibile “Mancusa”, che immobilizza tutto il pubblico, fissando lo sguardo sul palco. Omara invita sul palco al suo fianco suo marito a ballare, un simpatico novantenne che ha suonato la chitarra alle sue spalle tutto il tempo, e i due si scatenano. 

Potrebbero essere visti come un paradigma dell’intera orchestra: un gruppo di amici, di familiari, che si insegnano a vicenda, che si educano al bello e a un divertimento comunitario, dove tutti partecipano. Su questo spirito si aprono la storica “Chan Chan”, in ricordo di Compay Segundo, e “El quarto de tula”: un ballo sfrenato gettato nella notte, dove ciascuno partecipa con la propria versione della festa. La canzone viene fatta durare circa 20 minuti, ripetendosi sempre più forte, come ad affermare il vortice che da li sta crescendo: un’inarrestabile forza cubana, che prende tutti e li fa ballare come dei matti.

Finita anche questa fatica escono a prendere un respiro e dopo nemmeno cinque minuti ritornano sul palco. Neanche il tempo di far finire l’applauso e hanno già attaccato con le versione più danzereccia che io abbia mai sentito di “Dos Gardenias”, ma sempre mantenendo la nostalgia e lo struggimento. Il brano che chiude il concerto è “Candela”, e tutti sono pronti a ballare(io in primis).

La festa finisce e tutti, pieni e stanchi, sudati più per il ballo che per l’afa, tornano a casa, felici di aver salutato un’ultima volta degli amici di lunga data. Perché in fondo lo sanno tutti che con la musica cubana ti diverti davvero. Per loro il ballo è una questione di vita o di morte. E ci tengono a ricordare che sono ancora vivi, ballando più forte.

(Gianluca Porta)