Il periodo delle vacche grasse è finito da tempo nel mondo della musica rock. Le sperimentazioni, i cambi di formazione e i nuovi progetti possono essere accettati dalle band emergenti, quelle che di soldi e di pubblico ne muovono e ne muoveranno sempre e comunque pochi.
I grandi nomi, certe scelte non se le possono più permettere: i dischi non vendono più, la gente è pigra e ha bisogno di certezze, non importa se queste assomigliano sempre di più a una minestra riscaldata.
Così per i Litfiba. Dopo l’abbandono di Piero Pelù all’indomani dell’impresentabile “Infinito” e i tre dischi realizzati da Ghigo Renzulli assieme al nuovo cantante e bassista Gianluigi Cavallo, si è capito che non si poteva più continuare. Il nuovo materiale non era neanche malissimo, per la verità, Cavallo era bravo e questi nuovi Litfiba nel complesso risultavano molto più credibili dell’ultima incarnazione della formazione “originale”.
Nulla da fare. I fan volevano Pelù dietro al microfono, volevano ancora “Piero e Ghigo” insieme (persino Elio e Le storie tese si erano divertiti a scriverci una canzone sopra). Ci sono stati diversi anni di attesa, per la verità, ma alla fine la macchina del business ha avuto la meglio sui problemi personali: nel 2010 i Litfiba sono effettivamente tornati insieme tra gli entusiasmi del pubblico, che ha risposto con dei rapidissimi sold out a Firenze e Milano, per le prime date annunciate.
Un tour celebrativo e nostalgico al tempo stesso, che finalmente concedeva ai vecchi brani lo spazio che meritavano, dopo che negli ultimi anni sembrava che i nostri si vergognassero quasi di averli scritti.
Da qui alla Trilogia del Potere il passo fu breve: “Desaparecido”, “17 Re”, “Litifba 3”, ovvero i primi tre dischi della formazione toscana, riproposti sul palco quasi per intero, nella stessa identica formazione di trent’anni prima, con tanto di Gianni Maroccolo al basso e Antonio Aiazzi alle tastiere. Un sogno per qualunque fan della prima ora, quello per cui i Litfiba erano soprattutto il gruppo che, assieme ai Diaframma, portò la New Wave in Italia a colpi di grandi capolavori.
Ovviamente fu una cosa estemporanea: capitalizzare era la parola d’ordine, andare a pescare quelle generazioni che, uniche nel mercato musicale, sono ancora disposte a spendere soldi per comprare cd e andare ai concerti.
E così, ad aprile di quest’anno è partita la fase 3: dopo la reunion, un nuovo disco (“Grande Nazione”, piacevole ma totalmente costruito a tavolino) e il remake del tour degli esordi, non poteva non arrivare la rivisitazione di quella che è conosciuta normalmente come “Tetralogia degli elementi”, ovvero i dischi del periodo ’90-’97, ciascuno associato ad un elemento naturale (“El Diablo” è il fuoco, “Terremoto” è la terra, “Spirito” è l’aria, “Mondi Sommersi” l’acqua).
Ma qui il discorso si fa complesso. Già, perché stiamo parlando dei Litfiba rockstar, quelli che smisero i panni del gruppo di culto per indossare quelli delle star milionarie, delle macchine da soldi che vendevano centinaia di migliaia di dischi e facevano concerti sold out nei più grandi palazzetti della Penisola.
Quei Litfiba che nella prima metà degli anni ’90, prima dell’esplosione di Ligabue, rappresentavano, assieme a Vasco, quello che il qualunquismo dell’ultima ora definiva “rock italiano”.
E dal punto di vista artistico, le conseguenze furono ovvie: “Piacere a tanta gente è una gabbia seducente”, cantavano ne “Lo spettacolo” e quel verso, me lo ricordo benissimo, fu subito inquadrato come una esplicita dichiarazione d’intenti. I primi tre dischi erano dei capolavori, c’era un songwriting che nessuno allora in Italia aveva, una voce e dei testi che nessuno in Italia si poteva immaginare, una formazione che, a livello complessivo, suonava da dio.
Da “El Diablo” in avanti i Litfiba divennero semplicemente un ottimo gruppo rock. Furono quattro dischi di pregevolissima fattura, con suoni potenti e vere e proprie hit al loro interno, con un livello qualitativo che non calò mai, neppure in “Spirito”, che all’epoca sconvolse tutti per quanto suonava “leggero” o nel tanto bistrattato “Mondi Sommersi” (che, quello forse sì, qualche episodio imbarazzante lo conteneva). Ma c’era poco da fare o da immaginare, si trattava di un’altra band.
Quindi, è questa band che siamo venuti a salutare al Carroponte di Sesto San Giovanni, nell’ambito della leg estiva di un tour che è iniziato ad aprile e che sta ovviamente riscuotendo consensi entusiastici.
Si tratta di un’altra band e lo capisci anche dal pubblico: al di là dell’affluenza esagerata, mai vista dal sottoscritto in questa venue, bastano pochi sguardi distratti per capire che gran parte della gente non ascolta abitualmente la musica rock ed ha molta più famigliarità con le discoteche, piuttosto che con i concerti. Sono qui per vedere i Litfiba, non per ascoltare un gruppo dal vivo. Sono qui per l’evento, non per il concerto. Vogliono vedere Piero e Ghigo insieme suonare le loro canzoni più famose, a nessuno interessa se poi suoneranno effettivamente bene o male.
È la stessa cosa (se non peggio) se vai a vedere Vasco o Ligabue, c’è poco da fare: in Italia le cose funzionano così. Non lo dico certo per lamentarmi (anche se, chiaramente, non posso dire di trovarmi a mio agio in una situazione del genere) ma per puro dovere di cronaca.
Il concerto comincia nel migliore dei modi con “Resisti”, seguita immediatamente da “Dimmi il nome” e da “Africa”. Suoni potenti, compatti, un tiro complessivamente irresistibile che sembra totalmente noncurante del fatto che gli anni passino per tutti. Piero Pelù è il solito animale da palco, salta e corre poco, rispetto a dieci anni fa ma la sua presenza scenica rimane enorme e la sua vocalità è sempre potentissima. Per la verità ci è sembrato molto meglio quest’anno rispetto al tour della Trilogia del potere, ma bisogna anche dire che i pezzi di questa tranche sono molto meno impegnativi da cantare.
Ghigo Renzulli è sempre il solito: gilè di pelle senza maniche, cappellino, suona muovendosi poco e con l’eterno sorriso sulle labbra. Non è un gran chitarrista, a dir la verità, fa sempre le solite cose e sono in tanti (me compreso) che lo additano a principale responsabile dell’eccessiva banalizzazione del sound della band. Tuttavia, bisogna riconoscere che è quello che è e quel che deve fare lo fa più che bene.
Alla fin fine, i Litfiba di questa incarnazione sono solo loro due: i restanti componenti, Ciccio Li Causi al basso, Federico Sagona alle tastiere, Luca Martelli alla batteria, sono vecchie conoscenze (Li Causi aveva già suonato nel tour della reunion mentre Martelli, batterista di Giorgio Canali, era dietro le pelli durante il tour della Trilogia) ma non c’entrano nulla coi Litfiba, sono solamente degli ottimi session men. Bravissimi (soprattutto Martelli, che ha un drumming potentissimo, quasi da batterista metal) ma sempre session men rimangono.
Il pubblico, che nella fase pre concerto ci era apparso così fastidioso, si rivela il vero uomo in più della serata (come del resto accade sempre agli show della band toscana) per come salta, balla e canta ogni singola parola di ogni singola canzone.
La scaletta è molto consistente (lo show dura quasi due ore e mezza) e include gran parte dei brani che hanno reso i Litfiba una delle rock band italiane di maggior successo negli anni ’90: “Dinosauro”, “Sotto il vulcano”, “El Diablo”, “Lo spettacolo”, “Fata Morgana”, “Regina di Cuori”, “Spirito” sono nel complesso gli episodi che hanno riscosso il maggior successo e si capiva che erano anche quelli che gran parte dei presenti attendeva di sentire.
Personalmente, ho rivalutato molto alcuni brani da “Spirito”, come ad esempio le due ballate “Animale di zona” o “La musica fa” che, isolate dal contesto temporale in cui uscirono e ascoltate dal vivo vent’anni dopo, sono risultate davvero degli ottimi pezzi.
Anche “Mondi sommersi”, che fece gridare allo scandalo anche molti di quelli che avevano apprezzato il lavoro precedente, non sembra poi così male, a distanza di anni: se su singoli di successo come “Ritmo” o “Regina di Cuori” non abbiamo mai avuto niente da eccepire, perlomeno nelle loro potenzialità live, un brano come “Sparami” è stato, per quanto mi riguarda, uno degli highlight della serata per potenza ed espressività.
Ci sono anche alcune perle che credevamo dimenticate e che ha fatto molto piacere risentire: la già citata “Africa” (che è uno dei due inediti del live “Colpo di coda”, uscito nel 1994) ma soprattuto “Linea d’ombra”, che apriva la raccolta di rarità e versioni inedite “Sogno ribelle”. Dispiace invece che alcune cose che ho sempre amato molto come “Prima guardia”, “A denti stretti” o “Il mistero di Giulia”, sempre presenti finora in scaletta, siano state per questa occasione accantonate, ma d’altronde è anche bello che un gruppo concepisca la propria setlist come costantemente in evoluzione.
Bis particolarmente consistenti (tanto che forse sarebbe meglio parlare di un vero e proprio secondo set) tra i quali figurano altri cavalli di battaglia come “Lacio Drom”, “Gioconda” e il graditissimo ripescaggio di “Ragazzo”, dedicata da Pelù a “tutti i giovani italiani disoccupati”.
Finale affidato alla cavalcata di “Cangaceiro”, dilatata a sufficienza per permettere la presentazione dei musicisti.
Ecco, forse questo è stato l’unico difetto di questo spettacolo: il fatto che certe cose strumentali, certe ripetizioni di giri ritmici per far cantare il pubblico, soprattutto nella seconda parte, abbiano un po’ annoiato, alla lunga. I Litfiba non sono dei grandi virtuosi e le loro canzoni si prestano molto di più ad andare dritte al punto piuttosto che ad essere tirate troppo per le lunghe.
In definitiva, comunque, si è trattato di un gran concerto. Non ai livelli di quello di due anni e mezzo fa, si capisce, ma lì stavamo parlando di dischi che hanno cambiato le coordinate del rock italiano e di una formazione leggendaria, con ben altre qualità musicali. I Litfiba della “Tetralogia degli elementi” sono una band senza dubbio più immediata, più fruibile, più superficiale, se vogliamo. Ma questo non vuol dire che siano da buttar via.
A questo punto, però, rimane da capire che cosa accadrà al loro futuro: le rievocazioni sono già state fatte tutte, e l’anniversario di “Infinito” non abbiamo proprio voglia di celebrarlo. Se nei loro piani immediati non ci sarà un disco di inediti (sempre che possa avere ancora senso un’operazione del genere), non rimarrà altro che consigliare loro di mettere la parola fine a questa avventura. Dopo tutto, quello che dovevano darci, ce l’hanno dato in abbondanza