Ciò che ultimamente cerchiamo nell’arte, nella musica ed in qualsiasi altra forma di espressione artistica è uno stravolgimento del già saputo, di ciò che pensiamo di sapere, qualcosa che inconsciamente metta a repentaglio lo status quo della nostra vita permettendo l’intrusione di un dato nuovo. Un dato magari ostico, incomprensibile o doloroso ma capace di generare un nuovo inizio, di dare l’abbrivio ad una ricerca ulteriore. Pasolini, in una delle ultime interviste diceva che “scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista”, dove il termine scandalo assume tutta la profondità (e semplicità) della radice etimologica skandalos (=ostacolo, inciampo). Nella routine della nostra quotidianità, abbiamo estremamente bisogno di questo inciampo che ci costringa a cambiare direzione, a destarci dall’assopimento nel quale inevitabilmente scivoliamo e con il quale il potere cerca di addomesticarci.



Ecco perché “Star wars”, ultimo album dei Wilco, è un’opera d’arte, perché ne conserva tutta la carica dirompente e sovversiva, la “sorpresa” (così ha definito Tweedy la spiazzante mossa di rendere fruibile l’album attraverso un semplice click sul sito della band di Chicago) e tutta l’autenticità di una ricerca non fine a sé stessa ma tesa a scoprire il mistero delle “guerre stellari” che si agitano nel cosmo e nel cuore dell’uomo.



Il turbinio impazzito di EKG, breve intro dell’album, conferma le intenzioni di Tweedy e soci. Dimenticate le atmosfere country e pop dei primi album, oggi i Wilco non sono più ciò che i fan(?) vorrebbero da loro. E per fortuna – aggiungiamo noi – vuol dire, nel bene e nel male, che i nostri hanno ancora qualcosa da dire e hanno ancora l’ingenuità originale degli esordi, il desiderio di dirsi e l’inquietudine di non trovarsi. I riferimenti delle origini (Dylan, Beatles, Cash) si perdono in questo conflitto siderale tra chitarre distorte e dissonanti che ricorda le atmosfere stranianti dei King Crimson o dei Sonic Youth, ma a tratti tornano a galla trascinate dal talento pop cristallino di Tweedy. In More si agita ancora più evidente la lotta di una melodia ancora in nuce che, trasportata dalla voce di Tweedy, cerca di farsi largo in mezzo alla frenesia chitarristica di Pat Sansone e Nels Cline. Quando queste due forze contrastanti misteriosamente si incontrano accadono le vette emotive dell’album. Random Name Generator  e The Joke Explained sono le due cavalcate rock in cui questo binomio tra la genialità melodica di Tweedy e il tappeto cosmico delle chitarre si realizza. Se la prima si lascia andare ad una certa prevedibilità, la seconda mette in scena un country post-moderno dal rimto trascinato che rincorre la voce tesa (si sente l’impronta di Dylan) di Tweedy che canta il suo disagio di fronte alla donna angelo/demone (anche qui reminiscenze dylaniane). Un esempio limpido di come il legame con la tradizione e le radici, quando sono vissute nella carne, attrezzino l’uomo (e l’artista) a vivere la contemporaneità.



La vetta dell’album si raggiunge però con You Satellite, dolente ballata in cui si sente l’eco di Lou Reed, Bowie, gli U2 e finanche i Doors, senza perdere nulla in originalità e freschezza, segno evidente della maestria della band di Chicago nel far sedimentare i propri riferimenti artistici, farli passare al vaglio della propria sensibilità ed andare a comporre una cifra artistica originale ed autentica. L’intreccio sonoro ossessivo e in crescendo è la navicella spaziale su cui sale la voce di Tweedy alla ricerca di un contatto nell’aldilà, in quel conflitto stellare in cui il cantante di Chicago scopre di avere la residenza originaria.

Dopo questa impennata i Wilco sembrano ritrovare una dimensione più “classica” nella gradevole Taste the ceiling, in cui la voce di Tweedy si fa più tenera e commossa ed emerge più chiara l’impronta nostalgica che li contraddistingue (I don’t know, won’t you come and show me / I don’t think it’s what you did before / All alone I couldn’t take a kiss like you). L’alternarsi di violente scariche elettriche e atmosfere più sognanti e dolenti detta la linea anche per Pickled Ginger Where Do I Begin, a conferma che quella dei Wilco è tutt’altro che una posa, è piuttosto una necessità di rimettersi in discussione rischiando anche delle cadute.

Ancora più ardita questa dicotomia nel ritmo sincopato di Cold Slope sostenuto dal basso che, improvvisamente, lascia spazio ad aperture di chitarre dagli accordi dilatatissimi. King of you è una prosecuzione del pezzo precedente e si avvia indefessa alla fine con una gioia quasi innaturale, verso uno spazio ignoto, temuto eppure così desiderato, una luce ancestrale che sembra crescere al procedere di questa marcia definitiva. Il finale di Magnetized è una ninna-nanna beatlesiana in cui il sottofondo cosmico che pervade tutto l’album sembra giungere al compimento. Eppure rimane un ultimo accordo finale dissonante, una nota che è come un punto interrogativo, un quid ancora irrisolto che è la vera forza di questa band, che non smette di cercare sé stessa e l’accordo definitivo tra sé e il suono delle stelle, distante eppure così nitido.

(Davide Tartaglia)