L’invidia, alla fine, ti viene fuori comunque. Quando senti che Damien Rice, terminato il concerto a Villafranca di Verona, esce fuori con la sua chitarra e, noncurante della pioggia, si mette a suonare nove canzoni davanti a un pubblico di qualche centinaia di irriducibili fan, nove canzoni tra cui ci sono cose che avresti dato non so cosa per ascoltare durante la serata… beh, l’invidia è sacrosanta. Lo sapevi, che sarebbe successo: lo aveva fatto a Roma e soprattutto lo aveva fatto anche a Taormina, dove la festa era addirittura durata quattro ore, tra vino e prodotti tipici sulla piazza del Duomo deserta. 



E così, puntualmente, è accaduto anche in quel di Verona. Solo che tu non c’eri. La stanchezza era tanta, i chilometri per tornare a casa anche: “Non ho proprio le forze per aspettare due ore che esca a suonare. Pazienza.” Va benissimo così, ovviamente, meglio un after show mancato che un colpo di sonno in autostrada. A patto, ovviamente, di ammettere candidamente che in questo momento si sta rosicando di brutto. 



Ma questo serve anche per dire chi è Damien Rice. Il cantautore irlandese è, alla pari del connazionale Glen Hansard, uno che ha la musica nel sangue, uno che suonerebbe comunque dal mattino alla sera e che, semplicemente, è stato così bravo e fortunato da riuscire a farsi pagare per farlo. Di conseguenza, suonare davanti a migliaia di persone che hanno comprato il biglietto per esserci e successivamente uscire in mezzo a chi è rimasto per continuare la festa, sono semplicemente due modi diversi per manifestare il fatto che quest’uomo non potrebbe vivere, se non avesse una chitarra in mano. 



E uno così, va detto chiaramente e senza equivoci, non puoi non amarlo alla follia. Al di là che scrive in una maniera impressionante, che ha fatto tre dischi uno più bello dell’altro, che quando apre bocca ti provoca pelle d’oca istantanea, ecc. 

Uno così, lo ami soprattutto perché capisci che è autentico e che la sua autenticità si manifesta in una forma che chiunque può prendere, abbracciare e fare sua. 

Il Castello Scaligero di Villafranca è una cornice meravigliosa ed è bello che negli ultimi anni venga così tanto valorizzato per i concerti estivi. L’anno scorso ci abbiamo visto gli Arcade Fire e avevamo già avuto modo di scrivere di come la location fosse un valore aggiunto.

Questa sera ci sono le sedie, posti rigorosamente numerati che sono forse il sistema più adatto per ascoltare un artista che si esibirà in solitaria. È una bella selezione di classici di Leonard Cohen, quella che ci accoglie dai diffusori, appena entriamo: un bel modo per ricordarci chi è Damien e da dove viene, lui che pur geograficamente e musicalmente distante, non può non pagare tributo ad uno dei più grandi di tutti, uno di cui ha anche avuto modo di aprire dei concerti, negli anni passati. 

Damien Rice ritorna in Italia a quasi un anno dall’ultima volta: allora si era esibito a Milano, in quel terrificante teatro Ciack che aveva già suscitato le ire di Morrissey qualche giorno prima. 

“My Favourite Faded Fantasy”, il capolavoro con cui è tornato dopo otto anni di silenzio, per chi scrive semplicemente il più bel disco del 2014, non era ancora uscito ma ci mancava poco e diversi pezzi erano stati presentati in anteprima, in quell’occasione. 

Il sottoscritto non ci era andato e se lo era perso anche al Primavera Sound di Barcellona qualche mese dopo, complice la simultaneità della reunion dei Replacements: un evento più unico che raro, per cui valeva la pena sacrificare un artista che pure si ama alla follia. 

Ma questo suo ultimo disco nel frattempo impazzava dovunque e contribuiva a dimostrare quella che è una grande, pesantissima verità: Damien Rice scrive talmente bene che può anche stare fermo otto anni, senza dare nessuna notizia di sé. Nel momento in cui deciderà di tornare, ti strapperà il cuore senza nessuno sforzo. E dunque adesso a Villafranca bisognava andarci per forza: non potresti mai perdonarti di essertelo perso per la terza volta di fila. 

Aveva annunciato che sarebbe venuto con una band, in questa leg estiva, ma evidentemente poi le cose sono cambiate. Sul palco, effettivamente, c’è qualche strumento in più del solito: si intravede una fisarmonica, un piccolo drum kit, un clarinetto… ma quando poco dopo le 21.30 le luci si spengono e un divertente messaggio registrato avvisa il pubblico di spegnere i cellulari e augura buon divertimento, Damien arriva da solo, camicia beige e bretelle, la solita aria trasandata e l’immancabile acustica sgangherata al collo. 

Si parte con “Delicate” e siamo immediatamente tutti catturati: bellezza della voce, intensità di esecuzione decisamente di un altro pianeta. Segue una favolosa “Coconut Skins”, che purtroppo risulterà una delle poche tracce da quel “9” che stasera è stato forse un po’ troppo sottovalutato. 

È un concerto “acoustic solo” ma non è proprio tutto qui. Perché già con l’esecuzione della vecchia  bside “Woman Like a Man” ci fa capire che, anche se privo di una band di accompagnamento, non ha per questo intenzione di farci solamente rilassare: distorsore, effetti vocali e batteria campionata azionata a pedale, fanno sì che nell’arco di quattro minuti riesca a ricreare quasi l’effetto di un intero gruppo rock, con rumore e intensità a mille. 

Poi con “The Box” si passa al nuovo disco e qui Damien, da buon irlandese, si racconta come se fosse nel salotto di casa sua assieme a quattro amici, spiegandoci che quel pezzo è nato come una sorta di risposta ad un lato particolarmente fastidioso e disfattista della sua personalità. Una sincerità rara, che ci fa apprezzare come non mai queste esecuzioni, rendendole davvero parte integrante della storia personale dell’uomo che le ha scritte. 

Si prosegue con una meravigliosa “Long Long Way”, forse una delle cose più belle ascoltate nell’arco della serata: Damien parte accompagnandosi con l’harmonium, poi passa alla chitarra per la sezione finale, campionando e mandando di volta in volta in loop le varie armonizzazioni vocali, in un crescendo assolutamente da brivido. 

Poi, mentre sta accordando la chitarra per il pezzo successivo, sente una ragazza inglese che gli canta qualcosa e la invita sul palco: è l’inizio di un divertente siparietto in cui, vedendo la ragazza in questione visibilmente alticcia, chiede scusa al pubblico dicendo: “Forse ho fatto un errore!”. Viene suonata “Volcano” e sebbene la tizia non sembri assolutamente conoscere il pezzo (la seconda strofa, quella che vedeva Lisa Hannigan dietro al microfono, viene completamente saltata, nonostante Damien cercasse di darle gli attacchi giusti), la sua voce risulta almeno intonata e i suoi interventi, sebbene esuberanti e spesso fuori luogo, non rovinano eccessivamente l’esecuzione. Esecuzione per la quale il pubblico viene poi diviso in cori e spinto a cantare la parte finale, con un effetto decisamente suggestivo. 

Aggiungiamo che è nel vedere la pazienza e la disponibilità con cui l’irlandese ha trattato la sua giovane fan, nonostante in molti dal pubblico chiedessero di mandarla via, che capisci davvero chi è Damien Rice ed è a questo punto che ti conquista definitivamente. 

Anche perché, subito dopo, arriva una “Amie” pazzesca, una versione scarna, minimale, quasi sussurrata, buttata lì quasi chiedendo scusa, che ti provoca una pelle d’oca alta un metro e che ti fa ringraziare il cielo quando a concerto finito, guardando le setlist delle altre date, scopri che quel pezzo non lo suonava da mesi. 

Molto bella anche “My Favourite Faded Fantasy”: anche qui, come nel resto dei nuovi pezzi, i loop e gli effetti sostituiscono gli arrangiamenti orchestrali della versione in studio e il risultato è davvero piacevole. 

Si ritorna poi al vecchio repertorio con “Elephant”, straziante e lacerante come poche e con una “I Remember” che accresce ancora di più il climax emozionale, con la prima parte quasi sussurrata e la seconda che è un tripudio di suoni. 

“The Greatest Bastard” è quello che è: una canzone dalla semplicità estrema e dalla bellezza indescrivibile, la dimostrazione ulteriore che per raccontarsi con quell’intensità lì, scrivendo un capolavoro utilizzando intervalli armonici tutto sommato scontati, bisogna avere qualche cosa in più. E la versione di questa sera è al limite del commovente: non gli serve cantare bene per forza (a ben guardare stasera non sta benissimo di voce, lo si sente soprattutto nel falsetto), perché con quell’intensità e quella capacità espressiva riesce ad arrivare davvero dovunque. 

Poi ecco un’altra bside, quella “The Professor & La Fille Danse” che gli è sempre piaciuto eseguire dal vivo ed il cui testo ci viene spiegato in un altro divertente e appassionato monologo che tutti seguono con grande partecipazione (dimostrando, indirettamente, che l’Italia è cresciuta molto nel livello di conoscenza della lingua inglese). 

Ci chiede poi se siamo stanchi, se il giorno dopo dobbiamo andare a lavorare e tutti rispondiamo ovviamente di no. “Non è vero – ci risponde sorridendo – domani è venerdì, dovete andare tutti al lavoro!” e così ci fa capire che non ci terrà lì fino a notte fonda, anche se tutti lo avremmo voluto.

“It Takes a Lot To Know a Man” chiude il set principale e lo fa con grandissima classe, con un crescendo da brividi in cui nell’ordine vengono mandati in loop chitarra acustica, percussioni, clarinetto, chitarra elettrica e armonie vocali, in una sorta di orchestra da strada formata da un uomo solo. Ancora una volta, si rimane affascinati dal vedere come un semplice show acustico possa incorporare così tante sfumature ed atmosfere diverse nel corso del suo svolgimento. 

Per i bis, come era lecito aspettarsi, si accalcano tutti sotto al palco. E quando Damien ricompare dopo qualche minuto, pronto a sparare le cartucce più pesanti, l’atmosfera cambia completamente: non più quel silenzio teso e irreale di gente ipnotizzata dalla bellezza delle esecuzioni, ma una festa a cui tutti i presenti si sono abbandonati con piacere, cantando a squarciagola le parole dei testi. Anche perché, lo abbiamo già anticipato, quelli che rimangono da suonare sono proprio pezzi letali: “Cannonball”, “9 Crimes”, “The Blower’s Daughter” le stavano proprio aspettando tutti e non commuoversi a questo punto diventa praticamente impossibile. 

I pezzi dei primi due dischi sono sempre e comunque quelli che piacciono di più, c’è poco da fare: lo deve aver capito anche lui, che nonostante dell’ultimo disco abbia eseguito più della metà, ha preferito lo stesso puntare sul vecchio repertorio. 

Finisce così, con una buona notte augurata in fretta e una promessa di rivedersi non espressa ma sicuramente implicita. 

Qualche ora dopo, è successo quello che è successo ma noi non c’eravamo. A pensarci adesso, fa piuttosto male ma quando sei lì, nel buio della notte con un temporale che si avvicina, pieno di due ore di musica a livello stratosferico, esiste anche una parte di te che vuole tornare a casa. 

Beati quelli che sono rimasti, comunque. L’unica cosa certa è che Damien Rice dal vivo va visto. Almeno una volta nella vita, va visto. Ed è inutile aggiungere altro: perché sia bello ascoltare musica, perché valga la pena farsi due ore di macchina per vedersi un concerto… ascoltate un suo pezzo e capirete perché. 

Ci rivediamo presto. E se anche dovessero passare altri otto anni… li faremo passare.