C’è poco da dire su “Born to Run”. Nel senso che bisognerebbe scrivere che è un capolavoro e questa è un’ovvietà. Che rientra di prepotenza tra di dischi rock più belli di sempre, e anche qui si tratta di puro qualunquismo. 

Quel vinile dalla copertina bianca, con quella famosa foto del giovane Springsteen e del sassofonista Clarence Clemons in posa di divertita complicità, è quello che ha dato realmente inizio all’epopea dell’artista di Asbury Park, che ne ha notevolmente arricchito il conto in banca e che ha letteralmente creato dal nulla la figura di Jon Landau, attualmente ancora il suo collaboratore più fidato, che da spiantato giornalista di belle speranze, coniò quel “Ho visto il futuro del rock e il suo nome è Bruce Springsteen” che viene giustamente considerato come uno degli incipit più celebri di un articolo a tema musicale. 



Ma anche tutte queste sono ovvietà. Le trovate scritte da qualsiasi parte, se proverete a fare qualche ricerca su questo lavoro. E per giunta, “Born to Run” è già stato celebrato con un lussuoso Box Set in occasione del suo trentesimo anniversario, vale a dire dieci anni fa. Un Box Set che conteneva, oltre alla versione accuratamente rimasterizzata del disco, anche un bel documentario di interviste e di filmati d’epoca girato per l’occasione, e la registrazione integrale in DVD del primo concerto londinese della E Street Band, rimasto a lungo sepolto negli archivi e riesumato giusto in tempo per farci capire dove stessero le basi di quella pazzesca macchina da palco che sarebbe divenuto Bruce Springsteen coi suoi compagni di avventura. 



Oggi “Born to Run” compie quarant’anni e di sicuro non verrà più celebrato in alcun modo dal suo autore, visto che all’orizzonte dovrebbe esserci ormai il tanto sospirato cofanetto di “The River”. 

Ma quarant’anni sono sempre un bel lasso di tempo e francamente non me la sentivo proprio di lasciarli passare così. Ecco allora qualche pensiero sparso su questo disco: coloro che lo conoscono e lo amano da sempre, troveranno tutto questo di una superficialità imbarazzante, non ne dubito. Quelli che non ne hanno mai sentito parlare (sembra strano, ma esistono anche loro), potrebbero forse farsi venire la voglia di ascoltarlo… 



Siamo nel 1975, Bruce Springsteen ha già due album all’attivo e questi sono andati male. Lo aveva scoperto John Hammond che, sentendolo suonare in acustico, aveva pensato che sarebbe stato utile e remunerativo venderlo come “il nuovo Bob Dylan” (che oramai aveva attaccato la spina da un decennio ma non importa). 

“Greetings From Asbury Park, NJ” e “The Wild, The Innocent and The E Street Shuffle” erano stati però registrati con una vera e propria band ed erano dunque risultati piuttosto fuorvianti, soprattutto perché il tentativo di catturare su nastro le atmosfere incendiarie di live show che ormai da anni facevano impazzire l’America, non era per nulla riuscito. 

I suoi concerti, nel frattempo, continuavano ad essere frequentati e partecipati come prima, ma senza qualche nuova canzone da mandare in radio era difficile uscire dai confini del New Jersey, così che la Columbia cominciava ad essere preoccupata. 

Forse non gliel’avranno detto proprio in faccia, ma in qualche modo gli avranno fatto capire che non avrebbero tollerato altri fallimenti: se il prossimo disco non fosse andato bene, non ce ne sarebbe stato un altro. Fu questo a mettere il fuoco a Bruce e alla sua band? Fu questa pressione addosso, questa sensazione di “o la va o la spacca” a produrre uno dei più grandi dischi della storia del rock? Forse, ma non è detto. 

Le canzoni di “Born to run” erano in parte già pronte, come alcune registrazioni live di quegli anni testimoniano. E’ vero però che Springsteen passò in studio molto più tempo che in precedenza e non ne uscì finché il risultato non lo soddisfece del tutto. Insomma, stava iniziando a diventare preciso in modo maniacale anche in uno studio di registrazione, non solo sul palcoscenico. 

La canzone “Born to run” uscì come 45 giri qualche mese prima dell’uscita dell’LP vero e proprio. Fu una botta, già dall’attacco di batteria. Il timido ragazzo di Freehold era tornato, ma questa volta pareva intenzionato a prendersi tutto. Il testo evocava velocità come la musica, parlava di una lunga corsa in macchina, di una fuga per trovare un posto dove stare veramente bene: l’epopea americana, incarnata prima dalla nave, poi dai carri dei pionieri e poi dal treno, trovava nell’automobile la sua incarnazione migliore e si fondeva col mito del James Dean di “Gioventù Bruciata”, a disegnare un quadro nel quale generazioni di giovani americani si sarebbero specchiati con entusiasmo. 

“Di giorno ci sfoghiamo lungo le strade di un effimero sogno americano, di notte attraversiamo manieri di gloria in macchine da suicidio. Usciti dalle bare di cemento verso l’autostrada n.9. Su ruote cromate, motori a iniezione, correndo sulla linea bianca. Piccola, questa città ti strappa le ossa dalla schiena, è una trappola mortale, un invito al suicidio. Dobbiamo uscirne fuori finché siamo giovani. Perché vagabondi come noi, tesoro, sono nati per correre.” 

In questa strofa c’è già tutto: città noiose e provinciali come quella dove è cresciuto, la macchina come mezzo di evasione da questa realtà che sta stretta, l’amore di una ragazza, che solo può rendere questa fuga degna di essere tentata (“Voglio sentire se il tuo amore è selvaggio, voglio sentire se il tuo amore è vero”). Ed è una fuga che è connaturata nella situazione stessa del suo autore, stretto tra sogni di gloria e la pressione dell’ultima possibilità; è una fuga che connatura il suo personaggio e, allo stesso tempo, una intera generazione di giovani americani. Proprio per questo, andarsene è la cosa più importante, anche se la meta ancora non si intravede: “Un giorno ragazza – dice alla fine – non so quando, raggiungeremo quel posto dove davvero vogliamo andare e finalmente cammineremo nel sole. Ma fino ad allora i vagabondi come noi sono nati per correre.” 

Stesso tema del brano che apre il disco, quella “Thunder road” che in origine, molto significativamente, si chiamava “Wings for wheels”: quella Mary, nome femminile che spesso e volentieri comparirà nelle sue canzoni, invitata a salire in macchina per un viaggio che, chissà, forse porterà alla redenzione. Unica cosa certa: “Questa è una città di perdenti e io me ne sto andando per vincere”. Sapendo la scommessa che stava dietro a questo suo terzo lavoro in studio, c’era da giurare che fosse vero. 

Alla fine “Born to run” si rivelerà un successo clamoroso e permetterà a Bruce non solo di prolungare il suo contatto con la Columbia, ma anche di imbarcarsi in un tour più esteso, che lo vedrà riempire i suoi primi palazzetti e persino di sconfinare al di fuori dell’America (una manciata di date in Europa a fine anno, tra Inghilterra, Svezia e Olanda). Su otto canzoni, quattro basterebbero già a chiamare il capolavoro: a parte le due già citate, entrate da subito nel novero dei grandi classici del rock, non è possibile tralasciare “Backstreets”, che parla di un amore teso e drammatico, consumato nella fugacità di una torrida estate del New Jersey e che per la prima volta introduce il tema della sconfitta, che diverrà così famigliare nei dischi successivi. 

Già, perché in questa canzone meravigliosa (ormai suonata non più tanto spesso dal vivo, così che ogni fan la accoglie, quando arriva, come un regalo inatteso e per questo ancor più gradito), la storia d’amore si ammanta della consapevolezza che certi sogni non si avverano e che certi destini sono maledetti a prescindere. “Ricordi tutti i film, Terry, che siamo andati a vedere, cercando di imparare a camminare come gli eroi che pensavamo di poter diventare? E dopo tutto questo tempo ci siamo resi conto che siamo come tutti gli altri, prigionieri in un parcheggio e costretti a confessare di nasconderci nelle strade secondarie.” 

La fuga di “Born to Run” qui non parte neanche, ci si ferma prima e si è condannati a rimanere inchiodati per sempre alla stessa realtà. 

Quella realtà che viene celebrata, con tono epico piuttosto che malinconico, nella conclusiva “Jungleland”, lunga epopea notturna e metropolitana che dal punto di vista musicale e lirico si riallaccia al disco precedente mettendo però in mostra una maturità compositiva notevole: “Fuori la strada è in fiamme in un vero valzer di morte, sospesa tra la carne e la fantasia. E i poeti quaggiù non scrivono niente di queste cose, stanno alla larga e lasciano che tutto accada. E nel pieno della notte giunge il loro momento e cercano di fare un’onesta figura. Ma finiscono feriti, nemmeno morti. Stanotte, nella giungla d’asfalto.” 

Lo spettro di Dylan aleggia sempre (l’ambulanza che arriva a portar via uno dei personaggi è presa di peso da “Desolation Row”) ma il paesaggio di Asbury è qui trasfigurato in chiave quasi post apocalittica: non a caso Stephen King solo tre anni dopo userà questi versi in apertura di uno dei suoi romanzi più crudi, “L’ombra dello scorpione”. Non è un posto per poeti, questo New Jersey, non è un posto da celebrare romanticamente. E’ un finale che certo non nega le dichiarazioni di intenti della title track ma che sicuramente non si illude che un riscatto debba esserci, sempre e comunque. Le successive vicende biografiche di Springsteen renderanno ragione di quanto da lui ora è stato solo istintivamente intuito. 

Di per sé, il disco potrebbe anche finire così. Lo abbiamo detto, “Born to Run” è un album gigantesco anche solo per queste quattro canzoni. 

Ma anche la restante metà si difende bene, seppur i quattro episodi che la compongono siano nel complesso inferiori alle cose meglio riuscite dei primi due dischi. 

“Tenth Avenue Freeze-Out” è un bel pezzo divertente in cui è il pianoforte a ricamare la struttura principale, con Bruce che tiene alto il ritmo e canta una linea vocale divertente che racconta in termini goliardici e spiritosamente epici il formarsi della E Street Band. Diventerà un classico nei live show, utilizzata nel tour della Reunion del ’99 per presentare la band, con Bruce a fare il diavolo a quattro, in piedi sul pianoforte a coda. 

Durante il tour di “Wrecking Ball”, il celebre verso “When the change was made uptown and the Big Man joined the band” divenne l’occasione per inserire un commovente tributo al compagno di una vita Clarence Clemons, scomparso l’anno precedente. 

A ruota arriva “Night”, un proiettile sparato a raffica che costituisce una delle più belle canzoni “veloci” nel repertorio della E Street Band. Dal punto di vista lirico, è uno di quei pezzi che mette a tema la dura e soffocante routine del lavoro in fabbrica, nell’attesa spasmodica di una figura femminile che ci possa offrire salvezza e riscatto (“Ti alzi ogni mattina al suono della sveglia/Arrivi tardi al lavoro e il capo ti manda al diavolo/Finché sei fuori allo scoccare della mezzanotte/A perdere la testa per una bella ragazza/E allora ti senti bene, mentre chiudi la porta di casa/Spegni la luce ed esci incontro alla notte”). 

Qui il clima è teso e drammatico, laddove in brani che avranno maggior successo come “Out in the Street” o “Working On the Highway”, l’atmosfera si farà invece più spensierata. 

Ignorata dal vivo per parecchi anni, a partire dal tour di “The Rising” ha ripreso ad essere inserita piuttosto spesso nelle scalette e bisogna dire che l’economia dei concerti ne ha enormemente beneficiato. 

“She’s the One” ha un andamento sincopato e martellante, per un brano che ha sempre vissuto la sua dimensione migliore dal vivo, quando diviene spesso e volentieri sede di infuocate improvvisazioni. Per il resto, è una canzone d’amore senza troppe pretese, una sorta di ode alla donna amata che non disdegna di caricarsi di una certa ammiccante sessualità (“Con la sua grazia assassina e le sue parti nascoste/Che nessun ragazzo può invadere, con le sue mani sui fianchi e quel sorriso sulle labbra/Perché lei sa che mi fa morire/Con la sua soffice crema francese/In piedi alla porta come un sogno/Vorrei che mi lasciasse perdere/Perché la crema francese non ammorbidirà quegli stivali/E i baci alla francese non spezzeranno quel cuore di pietra/Con i suoi lunghi capelli sciolti/E i suoi occhi che brillano come il sole di mezzanotte/Oh, lei è l’unica”). 

Prima di “Jungleland”, c’è il meraviglioso bozzetto di “Meeting Across the River”: due minuti o poco più di voce, pianoforte e armonica (il violino di Susie Tyrrell ha arricchito talvolta le rare esecuzioni dal vivo degli ultimi anni), un pezzo rassegnato e malinconico che racconta una fugace storia di malavita che in qualche modo costituisce l’anticipo di quello straordinario racconto di amore e crimine che sarà “Atlantic City”. 

Stretto com’è tra l’irruenza di “She’s the One” e l’epica magniloquenza di “Jungleland”, rischierebbe di passare inosservato. Ma in passato è sempre stato accolto come manna dal cielo tutte le volte (poche!) in cui è stato eseguito in concerto. Nell’ultimo tour, complice la riproposizione integrale di “Born to Run” in alcune date, abbiamo avuto modo di sentirlo un po’ di più: non sarà tra le sue cose migliori ma l’intensità di queste versioni recenti ci ha lasciato letteralmente a bocca aperta. 

“Born to Run changed my life!”, aveva detto Springsteen nell’ormai famosa notte di Padova 2013, quando decise appunto di suonarlo per intero. Un regalo che rese felici decine di migliaia di fan e che, cosa ancor più importante, mise nero su bianco quanto ancora fosse attuale questo disco. Attuale, certamente, ma sarebbe riduttivo pensare che il suo autore sia ancora fermo a quel punto. 

Nel 1988, introducendo la title track dal palco (all’epoca la suonava in acustico ma non basta lo spazio per raccontare tutte le implicazioni di questa scelta) un sera disse: “Quando ho scritto questa canzone pensavo parlasse di un ragazzo e una ragazza che volevano fuggire via senza mai tornare. Era un’idea molto bella e romantica. Ma dopo aver messo tutta quella gente su tutte quelle automobili mi sono accorto che dovevo pur trovargli un posto dove andare. Alla fine mi sono reso conto che se la libertà individuale non fa riferimento a una comunità, a degli amici o al mondo intorno a noi, finisce per non avere senso”. 

Il Bruce Springsteen che pronunciava quelle frasi, era un uomo più maturo ma ancora fortemente tormentato, stretto com’era tra la morsa del successo planetario e quella di un matrimonio affrettato che stava già per finire. Anni dopo, l’incontro con Patti Scialfa e l’esperienza della paternità introdussero nella sua vita un altro punto di approdo e resero vere quelle parole pronunciate durante un concerto di cui probabilmente non si ricordava più. 

Quello fu il Bruce Springsteen che scrisse “Long Walk Home”, uno dei brani più importanti per capire la sua poetica: molto più importante della decisione di fuggire, è possedere la consapevolezza che si ha una casa a cui tornare. 

E dopo avere acquisito questa certezza, tornare a cantare “Born to Run” tutte le sere, ha finalmente riacquistato un nuovo senso. L’unico vero senso, probabilmente. 

Sono quelle luci accese a illuminare il pubblico, ininterrottamente dal 1999 a oggi, il simbolo più forte del rapporto che c’è tra Bruce Springsteen e la sua carriera, tra Bruce Springsteen e i suoi fan.