Il 30 agosto di cinquant’anni fa, un ragazzino ebreo che aveva da poco compiuto 24 anni pubblicò un disco che si intitolava “Highway 61 Revisited”. Cinquant’anni dopo quasi tutti sono concordi nel definirlo il più importante disco rock di sempre. “Chiunque abbia un po’ di sale in zucca sa che Highway 61 Revisited è il più grande disco rock della storia” mi disse ad esempio una volta uno che di musica rock sa una o due cose, artista rock lui stesso di vaglia, John Mellencamp.



Pubblicato secondo disco di una trilogia che spezzerebbe le reni a qualunque altro collega, e di fatto nessuno si è mai avvicinato a tali vertici, tanto che John Lennon in quei mesi del 1965 si alzò in piedi e come membro dell’allora gruppo rock più importante del pianeta, si azzardò a dire: “E’ Bob Dylan che ci mostra la strada”. “Highway 61 Revisited” nonostante tanta gloria non è forse ancora stato ancora esplorato a fondo. Gli altri due dischi per la cronaca sono “Bringing It All Back Home” di pochi mesi precedente a questo e “Blonde on Blonde” di meno di un anno successivo. Insieme costituiscono la trilogia più esplosiva, emozionante, affascinante e rivoluzionaria di sempre, tanto che l’irrompere sulle scene musicali della seconda metà degli anni 60 di gruppi rock e di solisti successiva ad essi non sarebbe stata minimamente ipotizzabile. La canzone radiofonica di tre minuti era spazzata via (il 45 giri di Like a Rolling Stone venne pubblicato su due facciate, e nonostante questo schizzò in testa a tutte le classifiche) e come disse Joni Mitchell ascoltando un brano delle session di “Highway 61 Revisited” pubblicato su singolo, Positively 4th Street, “adesso in una canzone si può davvero parlare di tutto, anche mandare a fanculo le persone”. La musica rock era stata liberata e con essa nulla sarebbe stato più uguale a prima. Ma soprattutto quello che Bob Dylan introduceva, ad esempio con Mr. Tambourine Man, era mettere in primo piano in una canzone l’io, punto centrale del dramma umano, che le ideologie e il moralismo borghese dell’America del dopo guerra aveva nascosto sotto i detriti del consumismo volgare, delle ipocrisie piccolo borghesi, della superiorità anche razziale: WASP, “white anglo saxon protestant”, quelli che probabilmente avevano fatto fuori lo scomodo JFK. Costringendo tra l’altro lo stesso Dylan ad abbandonare l’impegno politico dopo la notizia della sua morte.



Quel linguaggio musicale e lirico inedito ancora oggi viene guardato da chiunque prenda in mano una chitarra (non ci sarebbe mai stato un Bruce Springsteen, per dirne uno, senza questi tre dischi). Quei tre dischi sono stati il più completo, ambizioso e avventuroso ritratto in musica dell’America, dei suoi fantasmi, delle sue promesse mancate, delle sue radici, mai inciso da un artista rock.

Se si vuole sapere cosa fu l’America degli anni 60 non servono trattati sociologici, interpretazioni politiche, discussioni filosofiche. Basta ascoltare questi dischi in sequenza. Se il vostro cervello non esploderà davanti a questa potenza sonica e lirica, allora avrete di che meditare per il resto della vostra vita. Non è un caso ad esempio che le Black Panther, il movimento afroamericano para terroristico, nacque quando i due fondatori passarono un pomeriggio ad ascoltare senza sosta il brano Ballad of a Thin Man, contenuto in “Highway 61”.



Ma non solo. Dylan, come abbiamo accennato, era ebreo. Da ebreo aveva – e ha – una capacità unica di guardare la realtà. Qualcuno ha detto che i tre più grandi geni americani del Novecento sono stati Woody Allen, Einstein (benché nato in Germania, ma poi vissuto a lungo e morto in America) e Bob Dylan. Erano tre ebrei.   

Questo ebraismo viene alla ribalta nel pezzo che intitola il disco, una folgorante cavalcata di rock blues acido e anfetaminico (con tanto di sirena della polizia che si può udire tra una strofa e l’altra) attraverso quell’autostrada che taglia in due l’America, la highway 61 appunto, dai confini con il Canada fino a New Orleans e ne costituisce dunque la spina dorsale. Sulle terre toccate da questa autostrada è passata la storia di quel paese, con le sue speranze e le sue menzogne. Ed è tutto racchiuso in questa canzone. 

La prima strofa contiene un dialogo che non ha paragoni nella storia del rock. E’ apparentemente la più drammatica dichiarazione che un ebreo moderno potesse fare, una autentica bestemmia contro la sua religione. “God said to Abraham, “Kill me a son”, Abe says, “Man you must be puttin’ me on”, God says, “No”, Abe say “What?”, God say “You can do what you want Abe but, the next time you see me comin’ you better run”, Well Abe said, “Where do you want this killin’ done?”, God say, “Out on Highway 61”.

Non esiste nel panorama rock una sequenza “parlata” con domanda e risposta di questo genere e livello, così incalzante e con un senso di urgenza e di irriducibilità da lasciare l’ascoltatore senza respiro.

Dylan sembra che stia rifiutando la religione dei suoi padri, la stia ridicolizzando, annientando, si stia chiamando fuori. Il dialogo tra Dio e Abramo sulla richiesta apparentemente folle di sacrificare il suo unico figlio è uno dei fondamenti della religione ebraica ed è imprescindibile anche per quella cristiana. L’Abramo di Dylan all’inizio urla un no netto alla richiesta di Dio, poi cede e chiede dove deve farlo. Quel Dio, che rappresenta in quel momento l’America (“In God we trust”) chiede che il sacrifico avvenga sul proprio corpo, la highway 61.

Quale posto migliore infatti per compiere la versione moderna di questo sacrificio? La highway 61 ovviamente, la spina dorsale dell’America stessa. Il rifiuto di Abramo sembra così diventare anche un rifiuto dell’America. D’altro canto siamo nel cuore del decennio più sovversivo della storia americana, in piena rivoluzione culturale, politica e sociale, un decennio apertosi con le utopie di JFK e Martin Luther Kingcontinuato con i loro omicidi mentre in mezzo c’era la guerra nel Vietnam.

Ma quello di Dylan è un autentico rifiuto di Dio? In quella strofa di canzone emerge anche altro. Nel dialogo drammatico fra Dio e Abramo, il primo offre all’uomo una alleanza, lo tratta da proprio pari, lo mette alla prova ed è pronto ad aspettarsi anche un suo no. Dio offre, non ordina, fa una proposta.

Dylan scrive una strofa realmente dissacrante, ma il suo scopo non è la blasfemia, bensì la provocazione. Si potrebbe dire che utilizza il rapporto tra Dio e Abramo per criticare l’America. L’America Teo-con (usando un termine che all’epoca non c’era) ha utilizzato Dio per i suoi scopi tradendo l’alleanza con Dio. Quella stessa alleanza che Dio ha proposto ad Abramo, giocando tutto sulla sua libertà. Tanto è vero che anche l’Abramo di Dylan inizialmente dice di no a Dio.

Da questo punto di vista, due canzoni come With God on Our Side e Highway 61 potrebbero essere in qualche modo collegate, anche se la prima si ferma alla pura invettiva politica e la seconda la travalica.

“Highway 61 Revisited” contiene molto altro naturalmente, a cominciare da quel “crack” di batteria che apre il disco, che Springsteen anni dopo descrisse brillantemente così: “Ed ecco quel colpo di rullante che suonava come qualcuno che apriva con un calcio la porta della tua mente”.

Quel colpo di rullante è quello che attacca l’inizio di Like a Rolling Stone. La più grande canzone rock che fa parte del più grande disco rock. Non male come record. Una storia di solitudine e perdizione, una storia di mancanza assoluta, dove il protagonista non riconosce più l’io che lo costituisce, non sa più a cosa appartiene e a chi appartiene, è solo un vagabondo senza meta. Una storia di alienazione americana e universale: come ci si sente a essere completamente da soli, senza una direzione verso casa? Una storia di angeli della desolazione come solo Jack Kerouac o Jack London avrebbero potuto immaginare. Il disco intero suona come una compassionevole dedica all’America, e con essa a ciò che costituisce il cuore dell’uomo, che Bob Dylan abbia mai fatto (anni dopo in una intervista avrebbe detto: “Ho sempre navigato in quel grande mare che è l’America”). Perché in questo disco Dylan ritrae diverse tipologie di americani in modo quasi umoristico. Da Mister Jones al giocatore d’azzardo che è pronto a vendersi l’America in cambio della Terza guerra mondiale, dai personaggi apparentemente impazziti della lunga galleria di orrori che è Desolation Row, c’è sempre uno sguardo carico di compassione e di umorismo. Così è nella dolcissima Queen Jane Approximately, una notte tipicamente newyorchese, da qualche parte tra la Bowery e il Greenwich, dove solo un abbraccio è la risposta al fallimento – imposto – di tante esistenze.

Il disco contiene poi un brano in gran parte oscuro, Just like Tom Thumb’s Blues, che descrive la sua dichiarazione di appartenenza alla città che lo aveva adottato e dove scrisse e incise i suoi massimi capolavori, comprese le canzoni di questo disco. Nel novembre 2001, due mesi dopo i tragici attentati alle Torri gemelle, Bob Dylan si esibiva in concerto a New York. Nei due mesi precedenti era stato pesantemente criticato per non essere apparso insieme ai suoi colleghi alle tante maratone televisive in supporto dei familiari delle vittime degli attentati. Quella sera, quando le prime note di Just like Tom Thumb’s Bluescominciarono a spargersi all’interno del Madison Square Garden, il pubblico presente esplose con un boato. “Ecco, sta cantando proprio quella canzone, la canzone di New York” pensò la gente. Nell’ultimo verso del brano infatti  Dylan dice più o meno “sono stufo di tutto, me ne torno a New York”. Nonostante ogni personaggio della canzone sia un perdente come lo è Dylan stesso in quel brano, dove passa da alcolici a droghe pesanti durante una fuga in Messico, fu chiaro a tutti che quella canzone celebrava un senso di appartenenza e di comunanza. E’ il segreto dei grandi brani rock, comunicare oltre il momento e in occasioni diverse, un significato che va al di là della contingenza del momento in cui li ascoltiamo. Just like Tom Thumb’s Blues arrivava direttamente dagli anni 60 bucando ogni percezione spazio temporale e diventava una dichiarazione di compassione per chi aveva perso la vita l’11 settembre del 2001 e allo stesso tempo una testimonianza di appartenenza, come dire, ecco sono con voi oggi come allora.

La storia di “Highawy 61” si potrebbe concludere nel settembre del 2003 (ma in realtà è destinata a rimanere aperta, come tutte le grandi domande che la musica rock ha aperto). Quel mese, Bruce Springsteen sta tenendo gli ultimi concerti del The Rising Tour, il tour del disco omonimo dedicato alla tragedie delle Torri Gemelle e al desiderio di una resurrezione, come peraltro si intitola il disco. Sul palco inaspettato sale Bob Dylan che esegue Highway 61 Revisted. La canta solo lui, in una versione che sputa veemenza e rabbia, astiosità e disamore, mentre Springsteen e il resto della E Street Band lo accompagnano guardandolo con soggezione, rispetto, ammirazione, estasiati. Poco prima, Springsteen lo aveva introdotto così: “Lui è Bob Dylan, senza di lui non saremmo qui”.

Da qualche parte lungo la highway 61 se fate attenzione, tra un motel in rovina e una stazione di servizio abbandonata, potrete ancora incontrare Abramo che chiede a Dio: ma sei impazzito? E Dio che gli risponde, ragazzo, la prossima volta che mi vedi farai meglio a scappare a gambe levate. Loro sono sempre lì, perché quello che hanno da dirsi continuerà a risuonare sempre e per sempre, è nella loro natura e in quella di tutti noi. E’ un dialogo per la vita e per il significato dalla vita. Da qualche parte qualcuno sta mettendo su un vecchio giradischi un disco di cinquant’anni fa, e mai come adesso quelle musiche e quelle parole sono suonate più necessarie per la sua stessa sopravvivenza.

(L’autore ringrazia Luca Franceschini per l’importante consulenza)