Estate tempo privilegiato per la ricerca di un senso che dia piena ragione del personale spendersi quotidiano. In un non meglio precisato lasso temporale – anche breve – della stagione inafferrabile per eccellenza, l’orizzonte si allarga come mai prima nel corso dell’anno e contro ogni ordinaria speranza della vita di tutti i giorni. Tutto appare alla portata di un cuore e di una mente che non si accontentano più del normale sollievo che rende vivibile il trascorrere dei vari momenti del vivere affaccendato. Vi lancio questa provocazione.
La proposta degli Everything Everything (Jonathan Higgs voce solista, testi, chitarre, tastiere; Jeremy Pritchard, basso, cori, tastiere; Alex Robertshaw chitarre, cori, tastiere; Michael Spearman batteria, cori, tastiere) – vulcanici musicanti di Manchester – è niente di meno di quello che si possa onestamente attendere nella stagione dell’ “oltre”. Insomma è per chi cerca di affacciarsi sulle cose solite con un’energia e uno spirito del tutto insoliti. Un nome che è più di un programma, dove la ripetizione letterale suggerisce che qui si fa sul serio e non si esclude alcuna possibilità. Fatto che non è sfuggito al critico Paul Lester (The Guardian) che per sottolinearne la felice unicità ha parlato efficacemente di “rivolta nella fabbrica della melodia”.
Concetto riassunto poi a dovere dal bassista Jeremy Pritchard nel corso di un’intervista dove ha precisato che il raggio d’azione della band esclude solo il blues delle classiche dodici battute. Per intenderci. Non si tratta degli ennesimi avventurieri delle sette note che in nome di una malintesa varietà allestiscono improbabili pastoni di vari generi e tendenze, siamo piuttosto di fronte a quattro notevoli talenti (il tempo ci dirà se assoluti) in grado di tradurre e sintetizzare una congerie di stili, generi ed influenze nel fascino unico e inconfondibile di una forma canzone agile e compiuta libera da diavolerie e ghiribizzi naïf. Canzoni ora più semplici molto più spesso variegate oltre la norma, ma sempre dotate di una scrittura asciutta, essenziale, dalla sintassi brillante e inconfondibile. Con l’esordio di “Man Alive” (2010) si ha già uno spaccato attendibile delle proprietà musicali della band.
Art rock sfavillante con arrangiamenti che danzano su un confine strettissimo tra rock, pop-rock e pop affiancando elettronica e laptop al tradizionale suono elettro-acustico. Triangolazioni corali di impareggiabile appeal in rapida combinazione con veemenza vocale e falsetti viscerali del frontman Jonathan Higgs. Perizia musicale di tutto rispetto sia per ritmica – maiuscolo il basso di Jeremy Pritchard – che per fraseggi.
Tra l’immediatezza di canzoni dal potenziale hard rock-punk come Suffragette Suffragette, Photoshop Handsome e le seduzioni sixties di Come Alive Diana, si impongono l’elaborato pop-funky di My Kz, Ur Bf, le cadenze madrigalistiche di Two for Nero e gli ambiziosi crossover stilistici di Qwerty Finger e Weights. Da lasciare spiazzati anche i critici più esigenti tra i quali tuttavia qualche benpensante non manca di rimproverare al gruppo un’eccessiva complessità. Con il secondo album “Arc” (2013) il gruppo sembra in effetti cercare una mediazione tra risolutezza e complessità senza rinunciare alla varietà armonica.
Pur con una parte centrale che sembra denunciare una minore incisività, il disco non lesina momenti di grande spessore. Su tutti la strepitosa Cough Cough, singolo-icona del tutto atipico per l’esemplare sintesi operata tra vis polemica, agilità dell’arrangiamento e complessità di soluzioni corali e musicali. E ancora gli accenti da fiaba post-moderna di Duet e Choice Mountain e un trittico finale che mette in fila la brillantezza elettrica di Radiant, lo slow apocalittico di The Peaks e l’incontenibile e atipica impronta anthemica di Don’t Try. Soffermarsi sui due primi lavori della band è dunque una tappa obbligata per introdurci all’ascolto del nuovo “Get to Heaven” (22 giugno 2015) che se possibile si ritaglia un’area ancora maggiore di influenze e riferimenti stilistici rispetto ai predecessori.
Varietà sempre più marcata che se da un lato tradisce una certa discontinuità, conduce – grazie alla vivace produzione di Stuart Price (Scissors Sisters, Pet Shop Boys tra gli altri) il gruppo verso nuovi e sorprendenti vertici. In apertura To The Blade, robusta cadenza che funge da paradigma del recupero di certe sonorità elettro-pop-funky devote ai grandi nomi degli ’80. Un tocco di alternativo che negli episodi successivi, il primo singolo Distant Past e la title track Get to Heaven lascia il passo a sonorità più ammiccanti e accessibili con l’immancabile vincente dose di vitalità e ironia. Cambio totale di passo e atmosfere con il secondo singolo Regret che gioca abilmente di sponda tra memorie degli XTC di English Settlement, e con l’incontenibile sberleffo pop di una Spring/Sun/Winter/Dread con tanto di scoppiettante inserto finale hip hop/ragamuffin.
The Wheel, Zero Pharaoh e Warm Healer spostano il baricentro su minimalismo e sfumature giocate sottotraccia, mentre la caustica No Reptiles (dove i leader mondiali vengono paragonati a “soft boiled eggs in shirt and ties”) alterna battito ossessivo a uno stralunato crescendo di sequenze e frasi tastieristiche. Un disco che offre un ampio raggio di soluzioni e proposizioni sonore persino in bonus track di altissimo livello quali le sgroppate post-new wave Hapsburg Lipps e President Heartbeat, lo strumentale electro-epic di Yuppie Supper e la verve feroce di Only Good as My God.
In tanta varietà e rigorosa geometria delle trame sorprende il talento e la perizia dei quattro di Manchester nel replicare e dare cuore e muscoli alle riproposizioni dal vivo di questo piccolo ma già sconfinato repertorio. Capacità di giostrare stili e influenze, spiccato senso dell’armonia musicale e vocale. Ironici, sovversivi e con quel quid di sana follia, non li si può classificare. Come i veri grandi di un tempo gli Everything Everything non sono artisti per tutte le stagioni, sono un gruppo che osa, si espone e divide. Da non perdere.