Pur se messa in scena al Burgtheater di Vienna il primo maggio del 1786, ossia quattordici anni prima dell’inizio del nuovo secolo, Le Nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart viene inclusa, nelle storie dell’opera lirica, tra le quattro grandi commedie in musica del XIX secolo. Le altre tre sono Il Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini I Maestri Cantori di Norimberga di Richard Wagner e Falstaff di Giuseppe Verdi. Il XIX è stato un secolo complesso – di rivoluzioni, di movimenti di unità nazionali, di graduale apertura del suffragio politico e di introduzione della democrazia parlamentare, di individuazione della questione sociale – ma, pur sempre, un secolo che sapeva meditare ridendo e facendo ridere anche nella forma più alta di arte scenica, la “musa bizzarra e altera” dell’opera lirica.
Il XX secolo, breve e crudele secondo la definizione degli storici e dei politologi, ci lascia unicamente un’immensa commedia in musica Il Cavaliere della Rosa di Richard Strauss, seguita (a distanza) da La Rondine di Giacomo Puccini e da lavori (come Il pipistrello di Johann Strauss jr e Vedova Allegra di Franz Léhar) più vicini al genere nuovo (e volutamente meno alto) dell’operetta che, a sua volta, anticipava il musical.
“Nozze”, anche se legata ancora ai canoni del XVIII secolo (i “numeri chiusi”, i recitativi accompagnati dal cembalo o dal forte-piano, l’ouverture che anticipa i temi dell’opera e la divisione in due atti , diventati, in effetti, quattro, ma mantenendo due soli finali, per la mera lunghezza del lavoro, oltre tre ore al netto degli intervalli), è a pieno titolo nel XIX secolo.
In primo luogo, il riso (ed il sorriso) sono intrisi di ambiguità. L’azione scenica (e la scrittura musicale e vocale) possono essere interpretati in vario modo: a) uno sguardo disincantato sulle debolezze umane, quali si manifestano in una “folle giornata” (ed in una ancor più folle nottata); b) varie declinazioni dell’amore (da quello coniugale a quello sensuale a quello erotico); c) una rivoluzione femminista e sociale (in cui la contessa e la propria cameriera si alleano per sconvolgere i piani del conte e far sì che, alla fine della giornata e delle nottata, ritorni l’ordine e ciascuno finisca sotto le lenzuola appropriate. In secondo luogo, sull’intero lavoro domina la tolleranza (concetto con cui Voltaire spalanca il XIX secolo al motto della “massima intolleranza nei confronti dell’intolleranza”) e che, adombrata anche nel Barbiere, diventerà centrale nei Maestri Cantori ed in Falstaff, ponendosi come idee guida dell’Ottocento. E con la tolleranza, c’è inevitabilmente anche la melanconia per gli anni che passano e per gli habits and mores che svaniscono o più semplicemente cambiano.
Sotto il profilo musicale, Mozart riforma drasticamente (forse senza accorgersene) le “convenzioni” del XIX secolo sin dalla ouverture in cui vengono adombrati tolleranza e melanconia pur nel colore e calore gioioso e festoso che introduce, e chiude, la “folle giornata”. L’aspetto principale, però, è la facilità con cui dai recitativi si scivola nei numeri musicali e, di converso, dai numeri musicali nei recitativi. E’ un procedimento geniale in cui si mantengono i “canoni” dell’opera buffa e del dramma giocoso ma, al tempo stesso, li si superano. Un procedimento che raggiungerà il suo apice poco tempo dopo in Così fan tutte.
Coniugando l’ambiguità dell’intreccio e del libretto con l’innovazione della scrittura musicale e vocale, Nozze si presta ad una vasta gamma di letture, comprensibili a pubblici molto differenti. Ho il ricordo di un’edizione piuttosto modesta della Washington Civic Opera che tuttavia incantò mia figlia (allora non aveva ancora 6 anni): pur stanca a ragione della durata del lavoro, si risvegliò al Deh vieni non tardar di Susanna e seguì incantata il finale secondo. Ho anche quello di una versione da “commedia nera” vista a Praga verso il 1995; di una edizione volutamente povera (di scene e di costumi ma non di idee) ideata da Giuseppe Proietti a Spoleto alla metà degli Anni 80, della splendida commedia di atmosfera creata da Strehler per l’Opéra di Versailles all’inizio degli Anni 70 e tenuta in cartellone per decenni alla Scala ed all’Opéra di Parigi (ed in maggio gustata al Teatro dell’Opera di Roma); della commedie a sfondo sociale (molto differenti) di Visconti (Teatro dell’Opera di Roma) negli Anni settanta e di Martone (San Carlo) nel 2006, del tocco delicato con cui la affrontò Quirino Principe, della pièce elegante (in costumi Anni Cinquanta) offerta da Gustav Kuhn al Lauro Rossi di Macerata all’inizio degli Anni Novanta. E di tante altre letture, tra cui almeno quattro viste ed ascoltate in quella vera e propria bomboniera che è il Théâtre de l’Archevêché.
A Salisburgo è naturale comparare questo nuovo allestimento 2015 diretto da Sven–Eric Bechtolf (a conclusione di una trilogia Da Ponte-Mozart) con quello di Claus Guth del 2007 (ad inizio, invece, di una trilogia Da Ponte-Mozart). Claus Guth (regia) le interpretava come una “commedia per adulti” in cui si scavava nell’animo di quattro coppie in crisi. A tal fine trasporta l’azione all’inizio del Novecento, quasi in parallelo con la nascita della psicoanalisi. Le scene ed i costumi di Christian Schimdt ci portano in un palazzo tardo-vittoriano, ma – attenzione – non siamo nel serial televisivo britannico Upstairs Downstairs per decenni tema di arguta critica sociale. E’ un inizio del Novecento molto nordico – forse britannico, ma potrebbe essere anche scandinavo (certo non c’è nulla della solare Siviglia di un celebre allestimento di Luchino Visconti). In interviste (e in note al programma di sala), fa riferimento a Ibsen e a Strinberg . A mio avviso, riferimenti più appropriati sarebbero “Sorrisi di una notte d’estate” di Ignmar Bergman (il film che nel 1955 portò il regista svedese all’attenzione mondiale) e “Candida” di Gorge Bernard Shaw. Upstairs Downstairs sono, invece, centrali alla edizione ora in scena a Salisburgo, in armonia con il tema di fondo del festival: il confronto tra ‘signori’ e servi, etnie e culture differenti, tra uomini e donne.
Siamo, però, per sempre nell’ambito di una commedia, mentre nel 2013, Sven–Eric Bechtolf aveva ambientato Don Giovanni in un grande albergo di lusso dei nostri giorni (con riferimento alle vicende, allora caldissime, dell’ex Ministro delle Finanze francese Dominique Strauss Kahn) e l’anno seguente Così fan tutte era stato collocato in una Napoli settecentesca da cartolina, queste Nozze si svolgono nella prima parte del XX secolo in una grande villa dell’Austria, della Baviera o della Gran Bretagna. Con nessun riferimento a Siviglia. Le scene sono di Alex Eales. Anche grazie ad una recitazione molto curata, ciò mette in risalto i conflitti sociali e soprattutto il femminismo dell’apologo.
Dal 2013 è cambiato anche il direttore d’orchestra; al posto di Christoph Eschembach (che ha concertato le prime due opere della trilogia) c’è l’israeliano Dan Ettenger, della nidiata di Barenboim che ha concertato l’opera in numerosi teatro e dato un ottima prova, specialmente nei passaggi tra recitativi e ‘numeri’. In buca i Wiener Philarmoniker: il coro è quello della Staatoper di Vienna.
Nel cast, tutto di livello, spicca il Conte interpretato da Luca Pisaroni, che nella recita domenicale a cui ho assistito, è andato in scena nonostante un forte mal di schiena. Il suo Conte non l’uomo di mezza età alla perenne ricerca di gonnelle (come in numerosi allestimenti) ma un personaggio tormentato che ‘vorrebbe e non vorrebbe’ tradire la Contessa. Ottimo sotto il profilo vocale, così come lo è Anett Fritsch, una Contessa astuta (anche se addolorata per certi comportamenti del Conte), la quale si è meritata applausi a scena aperta dopo le sue due maggiori arie.
La coppia Figaro (Adam Plachetka) e Susanna (Martina Jancova) è perfetta nei ruoli e nelle voci. La coppia Marcellina (Ann Murray) e Bartolo (Carlos Chausson) è divertente tanto quanto deve essere. Margarita Gritsoka è uno splendido Cherubino. Dieci minuti di ovazioni: Queste Nozze si vedranno a Vienna ed altrove.