L’arte non è espressione di noi stessi, l’arte non è l’espressione dell’artista. Certo, ci può essere chi si sforza come in un qualunque lavoro di creare qualcosa e di metterci tutto se stesso. L’arte, per quel che può significare questa parola così piena di vanità, è espressione di qualcosa d’altro oltre noi che ci attraversa a volte anche con violenza, dolore e sacrificio, chiedendo di essere espresso. E’ un urlo, un pianto, occhi rosse di lacrime, una preghiera. E la preghiera non è mai una nostra affermazione, ma una richiesta.



Tre uomini anziani, alla soglia dei loro 70 anni, siedono in una tribuna con i massimi onori. E’ il 2012, è la serata del Kennedy Center Honors. Al loro fianco il presidente degli Stati Uniti, al loro collo la massima onorificenza che quel paese può dare a chi si è reso meritevole grazie al suo lavoro (o arte se vogliamo).



I tre anziani signori aspettano di vedere l’ultima esibizione musicale in loro onore della serata, dopo altre esibizioni che li hanno già glorificati. Ma ecco che succederà l’impensabile, anche per loro, anche per tutti quelli che si erano esibiti convinti di aver già fatto del loro meglio, per tutti coloro che sono in quella sala.

Accadrà che qualcosa di più grande degli artisti che la eseguono, più grande degli autori (i tre anziani signori, ne manca uno, morto decenni fa, crollato sotto il peso di quel misterioso atto creativo che non tutti sono in grado di sopportare a lungo) in qualche modo si renderà tangibile e talmente affascinante da ridurre in lacrime almeno uno di loro. 



Lui, il cantante, quarant’anni prima all’epoca di quel brano che fra poco verrà eseguito, era l’idolo assoluto, “il dio dorato” lo chiamavano. Aveva in mano le chiavi del mondo e anche del cielo. Adesso è un uomo vecchio, con tante rughe e lo sguardo stanco. Insieme agli altri aveva scritto quel brano, mettendoci lui le parti più importanti. La canzone si chiamava Stairway to Heaven, una scala verso il cielo. E anche se persone ottuse, incapaci di fronteggiare il mistero che dicevano di predicare tutti i gironi in chiesa avevano definito quella canzone un brano satanico, cioè l’espressione del male stesso, quella canzone sarebbe stata invece l’espressione tra le più lampanti del grido del cuore dell’uomo a Dio: “essere una pietra e non riuscire a rotolare”, mai definizione e giochetto di parole più brillante per scherzare con quella cosa misteriosa, il rock’n’roll che li aveva forgiati e definiti come persone (“to be a rock and not to roll”). E poi il desiderio di una scala per salire finalmente al senso e al significato di tutto.

Stasera la stanno per cantare le Heart, un duo femminile che fu la diretta discendenza di quei tre signori sopravvissuti, conosciuti anche come Led Zeppelin.

La cantante comincia a cantare con eleganza e sentimento e i tre non riescono a trattenere sorrisi e ghigni di soddisfazione. Ma soprattutto ascoltano sorpresi: ma davvero abbiamo scritto noi una canzone così bella? Non è possibile. Ecco che l’arte non è espressione di se stessi, ma avviene attraverso e nonostante noi. Solo gli umili possono capirli.

Poi alla batteria quel ragazzone grande e grosso che è proprio il figlio del loro batterista morto tanti anni fa e che insieme a loro tre l’aveva eseguita mirabilmente tante volte. E poi improvviso, scoperto dalle luci, un coro gospel che fa sobbalzare tutti sulle sedie. E l’orchestra di violini. Ma qui siamo davvero arrivati in cima a quelle scale, sembra dire Jimmy Page che ride e sorride, muove la testa a tempo, segue con attenzione il chitarrista che cerca – ovviamente non può riuscirci – di imitare il suo assolo. 

Mentre quel coro gospel porta ognuna delle persone presenti a latitudini inimmaginabili, gli occhi del vecchio cantante si stanno riempiendo di lacrime. Non le può trattenere. Sta accadendo qualcosa in quel preciso momento lui può solo arrendersi al fatto che si impone. Gratitudine, rimpianti, meraviglia: ogni cosa in quelle lacrime. E’ giusto lasciarle andare, bisogna avere il cuore buono per reagire così. 

Alla fine la musica finisce ma rimane nell’aria come una testimonianza, una preghiera per l’eternità, un monito e il figlio del batterista morto non trattiene neanche lui le lacrime: ho suonato come potevo quello che mio padre suonava tutte le sere, ma c’era anche lui qui stasera. Quel padre morto quando lui era solo un bambinetto, mai conosciuto veramente, ma così incredibilmente presente attraverso la musica. Si alza in piedi, indica i tre signori sul palco, si battee il petto dove c’è il cuore.

E’ stata davvero una salita verso il cielo, e ne è valsa la pena, ne bene e nel male. Siamo delle pietre incapaci di rotolare, ma se diciamo di sì, il mistero può passare ed esprimersi attraverso di noi.