Ogni tanto vale ancora la pena parlare di qualche nuova uscita nel mondo del Metal. Genere di nicchia quanto si vuole, i suoi anni migliori in termine di qualità delle proposte discografiche e del successo economico, sembrano purtroppo definitivamente tramontati. Ma i fan sono ancora tantissimi, nel nostro paese e nel resto del mondo, e di dischi validi saltuariamente ne escono. Non tanti, a dir la verità: molti si buttano sui nomi storici della scena, convinti che il passato glorioso basti a giustificare i soldi spesi ma spesso e volentieri questo non accade. I Judas Priest hanno fatto cilecca, gli Helloween e i Gamma Ray, capofila della scena tedesca, da anni stentano a decollare, i Queensryche si salvano giusto perché hanno reclutato un nuovo cantante e stanno clonando le loro origini ben oltre il limite della legalità, i Nightwish fanno sempre lo stesso disco da anni e sono sempre più egocentrici e soporiferi, gli Iron Maiden non li abbiamo ancora sentiti (usciranno a settembre) ma vista la prolissità degli ultimi lavori, non sono in molti ad aspettarsi qualcosa…
Sono solo pochi nomi, i primi che vengono in mente. La scena è molto più ampia e variegata e le cose forse non vanno poi così male. Gli appassionati, quelli che non hanno mai mollato, vi diranno infatti che ancora tutto procede per il meglio, che basta solo saper cercare e che le proposte valide stanno soprattutto fra le nuove leve.
È vero, ma solo fino a un certo punto, almeno per chi scrive. Se vi accontentate, avrete di che gioire (del resto lo dice anche il proverbio); in caso contrario, le cose potrebbero anche essere difficili. Di sicuro, ripiegare sulle nuove leve appare la soluzione migliore: le idee non saranno innovative (ma quelle ormai, chi ce le ha più?) ma di sicuro la freschezza e l’entusiasmo non mancano. E ogni tanto, piuttosto raramente, accade di imbattersi in un disco che riesce realmente ad entusiasmare.
Questa volta si tratta dei Maya. Il loro “The Prophecy Is Broken” è uscito un paio di settimane fa per Underground Symphony e già questo è un punto a favore mica da ridere. La piccola etichetta di Maurizio Chiarello è sempre stata una garanzia in fatto di Heavy Metal targato Italia. Nel suo roster di sono band storiche come Skylark e soprattutto White Skull, che non hanno venduto milioni di copie ma che di sicuro si sono ritagliati una bella parte nella storia di questo genere.
Ma c’è un altro elemento nella presentazione di questo lavoro, che ci fa tendere le antenne: la produzione è starà affidata ad Alessandro Del Vecchio. Uno, per intenderci, che negli ultimi anni ha lavorato con chiunque, nel mondo dell’Hard Rock e dell’Aor. Qualche nome? C’è troppo poco spazio per scriverne ma se diciamo Glen Hughes, Neal Schon, Fergie Fredriksen, Michael Kiske, avremo più o meno reso l’idea.
Quindi diciamo che se l’Underground Symphony ha deciso di pubblicare il disco e Del Vecchio ha voluto produrlo, di sicuro almeno un ascolto bisognerà darglielo. Questo, più o meno, il mio pensiero, e non sono stato per niente smentito.
I Maya, dal canto loro, sono degli sconosciuti. Non sono più giovanissimi (a parte il tastierista) e tre di loro avevano già suonato assieme per diversi anni in una band chiamata Holy Gates. Facevano Power Metal, a detta loro, con Stratovarius, Helloween e Symphony X come principali punti di riferimento.
Sono stati diversi anni senza vedersi ma poi Alessio Mognoni (chitarre), Alessandro Quadrelli (basso) e Mirco Petocchi (batteria) hanno ricominciato a suonare insieme, hanno trovato in Daniele Chierichetti un tastierista bravissimo, versatile e con tante idee, ed hanno iniziato a comporre canzoni. La scelta del cantante si è rivelata più difficile del previsto e alla fine, al momento di entrare in studio, non ne avevano ancora uno che li soddisfacesse in pieno.
E qui è intervenuto Del Vecchio, che ha consigliato loro di reclutare Marco Sivo, che aveva lavorato con due band piuttosto importanti come Time Machine e PlanetHard. La mossa si è rivelata azzeccata anche perché il nuovo entrato ci ha messo parecchio del suo in termini di linee vocali e testi, andando quindi a completare e ad arricchire un lavoro buono ma a cui probabilmente mancava qualcosa.
Ma Sivo, questo lo aveva già messo bene in chiaro, sarebbe stato solamente un session man e non avrebbe proseguito l’avventura. Il cantante della band è ora Amerigo Vitiello, che non ha un curriculum importante da mettere in mostra, ma che a detta di chi l’ha sentito al debutto live, ha sicuramente stoffa da vendere.
Ma ci siamo dilungati troppo. Sarebbe ora di capire come suona questo disco.
“The Prophecy Is Broken” è, come era piuttosto facile intuire, un concept ispirato al popolo Maya e alla ormai celeberrima notizia secondo cui avrebbero previsto la fine del mondo il 21 dicembre del 2012. Non è mai stato vero, in realtà, questo chi realmente studiava questo popolo lo sapeva bene ma, come sempre accade, certe notizie sono buone per vendere giornali e quant’altro.
Ad ogni modo, questa bufala apocalittica è diventata il soggetto di una storia che si muove tra passato e presente, con atmosfere ora storiche, ora avventurose, ora fantasy. Temi certamente non originali, che parecchi gruppi Metal hanno toccato più volte, e anche certe soluzioni liriche e la storia in sé (da quel che si può capire limitandosi a leggere i testi) non sembrano far gridare al miracolo. Ma è comunque giusto concedere un plauso al tentativo della band di scrivere qualcosa di diverso dai soliti riempitivi che spesso infestano le canzoni dei gruppi Metal.
Musicalmente parlando, siamo di fronte ad una proposta che più classica non si potrebbe. Il Power e il Classic Metal di nomi storici come i già citati Helloween, Symphony X, Iron Maiden, si incontra con atmosfere e soluzioni armoniche che devono invece tantissimo al mondo del Rock melodico di gente come Journey o Europe.
Attenzione, non è che i Maya ricordino più di tanto le band citate: è solo per dare delle grezze coordinate stilistiche. L’incrocio tra Power e AOR è comunque il modo migliore per descrivere la proposta di questa band: più AOR che Power, se dobbiamo dirla tutta. Perché il riffing non è sempre possente, i ritmi non sono molto accelerati (assenza pressoché totale di brani Speed, giusto per capire), mentre una certa ricerca di melodie catchy, soprattutto nei ritornelli, la fa da padrone. Aggiungiamo che il modo di cantare di Marco Sivo è più tipico dell’Hard Rock e che Del Vecchio appartiene a quel mondo lì, e il quadro sarà completo.
Dove invece le influenze Metal (soprattutto quello di stampo Neoclassico) sono presenti è nei soli di Alessio Mognoni, uno che di Malmsteen, di Michael Romeo e di Timo Tollki deve averne masticati a palate, e nel lavoro di tastiera di Daniele Chierichetti che, lo si vede anche un po’ dal look, dovrebbe avere Tuomas Holopainen dei Nightwish tra i suoi principali modelli.
Ecco, ascoltando il disco, le reminiscenze che più mi sono venute sono state quelle di Royal Hunt e Vision Divine. Che guarda caso sono anche due band che hanno mescolato tantissimo i due generi di qui sopra. E così il discorso dei modelli e dei riferimenti lo abbiamo fatto fuori.
Passando invece alle canzoni, “Kutulkan”, dopo un intro che vuole ricordare le cupe atmosfere dei sacrifici umani praticati dai popoli Precolombiani, sfocia in una strofa oscura dominata da un bel lavoro di percussioni, che si scioglie in un ritornello liberatorio.
Segue a ruota “Spirit”: attacco di pianoforte (che è poi lo strumento centrale di questa canzone), andamento leggermente prog delle strofe. Nel complesso siamo su atmosfere più rarefatte. Per espressività, forse la migliore interpretazione di Sivo.
“Treasure World” ha un attacco bello sostenuto e potente, con la tastiera che domina il riff principale, per un bel pezzo Hard ‘n Heavy potente e di facile presa, scontato ma efficace. La parte strumentale dei soli gode poi di quella non linearità che la rende un fattore in più.
Ed eccoci arrivati a “The Prophecy Is Broken”: la title track inizia in sordina, con basso e batteria a dettare un ritmo cadenzato, accompagnati da un leggero arpeggio di tastiera. Poi parte il ritornello, potente, anthemico, destinato ad essere un must dal vivo. Il brano è un up tempo efficacissimo con tanto di parte centrale ricca e variegata, dominata dagli ottimi soli di Alessio Mognoni, chitarrista dotato davvero di un ottimo tocco.
Anche “Fight” si avvale di un inizio blando, con tastiera e voce a disegnare una melodia vagamente eterea. Si sfocia quasi subito in un mid tempo potente che però non riesce mai a decollare. È forse il punto del disco dove il seguire pedissequamente certi cliché si rivela un’arma a doppio taglio. C’è troppo di scontato e di già sentito, qui dentro, a partire dal titolo: sicuramente si poteva avere più fantasia a riguardo. Il solo comunque è bello ed è forse l’unica parte che si può salvare.
“Strangers” è un altro mid tempo, con certi stacchi ritmici dal sapore prog. Molto più riuscita, proprio per questi continui cambi, anche di atmosfera: si veda da questo punto di vista il ritornello, rallentato e vagamente epico.
“The Chosen Ones” si avvale di piano e archi sintetizzati che ricamano un’introduzione epica e solenne, prima che arrivi la strofa in up tempo con una splendida melodia chitarristica. Nel bridge fa capolino la sempre ottima voce di Del Vecchio e il ritornello esplosivo, nonostante giochi un po’ troppo sulle solite parole e rime, gode di una straordinaria efficacia. Indubbiamente una delle cose più belle del disco, quella in cui tutti i componenti sono al massimo delle loro potenzialità.
“The Day After” è invece costruita su un bellissimo lavoro di tastiera e chitarra, e ancora una volta certe influenze prog vengono fuori, per merito soprattutto del drumming fantasioso di Mirco Petocchi, sempre a suo agio e mai banale per tutto il disco. È un brano gradevole e riuscito ma scorre via in fretta, ha più che altro il compito di preparare la strada per l’atto conclusivo: “Deja Vu” .
Il brano conclusivo, all’interno di un disco Metal, è spesso quello dal minutaggio più elevato degli altri, quello che cerca di tirare le somme di tutto quanto si è ascoltato in precedenza e prova a collocarsi come episodio di punta del lavoro. In questo caso siamo su un terreno diverso: il pezzo non è eccessivamente lungo (poco più di sette minuti) ed è più che altro una ballata pianistica dai toni malinconici, che cresce pian piano a partire dalla seconda strofa, e con un Marco Sivo decisamente ispirato. La parte centrale è poi dominata dai tempi dispari, con i nostri che giocano a fare i Dream Theater per qualche minuto ma lo fanno molto bene, senza mai uscire dal contesto generale. E forse sì, l’ascolto di questi tre minuti strumentali è uno dei migliori biglietti da visita per capire chi sia davvero questa nuova band varesotta.
Ci è piaciuto, questo “The Prophecy Is Broken”, ci è piaciuto veramente tanto. Certo, non tutto funziona, c’è qua e là qualcosa di eccessivamente aderente ai modelli che speriamo verrà limato già dal prossimo disco. Ma questa è una band dalla grossa personalità e dalle indubbie capacità strumentali e di songwriting. Se siete metallari preoccupati dal declino inesorabile dei vostri idoli e alla ricerca di un nuovo gruppo a cui tributare devozione, questi Maya potrebbero essere una buona ipotesi di investimento. Sappiatemi dire…