Concediamoci un piccolo viaggio di fine estate nel Friuli del cantautorato femminile per scoprire un nuovo piccolo grande tesoro. Quella terra che negli ultimi anni ci ha dato Elsa Martin, Giulia Daici e Rebi Rivale, ci concede in dote il talento di Serena Finatti.
La parte di me romantica e spregiudicata sarebbe tentata di avventurarsi in quei luoghi a decodificare volti, tradizioni e legami che hanno partorito queste ricercatrici di un senso compiuto della bellezza e delle sue origini, quella più modestamente realista è ben felice di quello che si trova tra le mani con questo debutto d’autore. Non un vero esordio in realtà perché la piccola incantatrice goriziana vanta una esperienza più che quindicinale con il combo folk dei Deja insieme all’ottimo chitarrista/compositore Andrea Varnier. Lei proveniente da svariate e multiformi esperienze musical-teatrali, lui dapprima vorace frequentatore dell’ipertecnicismo degli axe man, più di recente delle grandi eccellenze dell’acustica.
Ascoltati di recente nella bellissima staffetta folk con la Daici di Non val mica poc (2013), quattro dischi all’attivo il cui capitolo finale “Laila” (2010) è una bella raccolta all’insegna della canzone popolare nella sua accezione più carnale e verace combinata a certo imprinting immaginifico da fiaba ottocentesca. E’ proprio in uno degli episodi di questo disco – il singolo Lenzuolata – che il gusto per la favola viene esibito con accenti spiccati che arieggiano il musical per ragazzi. Giochi ad incastro tra tracce vocali multiple, suoni oscillanti in punta di danza, atmosfere magiche a getto continuo.
Con “Serena Più Che Mai” la scelta di passare dall’esperienza di gruppo a quella solista riguarda più l’approccio musicale che la struttura portante del lavoro.
Album uscito sul finire del 2014 è in realtà un prodotto che, come gran parte delle odierne produzioni indipendenti, si fa conoscere tra passaparola e segnalazioni nei mesi a venire ritornando agli onori delle cronache nel periodo che prelude all’estate appena trascorsa.
Il nucleo creativo è quello di sempre con Andrea Varnier in fase di regia e arrangiamento (insieme al produttore Mauro Costantini), differente il metodo. Messi in soffitta i duelli tra grandi saliscendi vocali della Finatti e ricche fioriture di Varnier, si ascolta un appoggio presente ma discreto delle chitarre in un contesto sonoro che sposta gran parte dell’enfasi sulla narrazione tipicamente favolistica del canto con frequenti rabbocchi e coloriture del quartetto d’archi. Target del disco è quello di un’attrazione del moderno musical fiabesco sul terreno della musica popolare autoctona e delle espressioni più vive del dream pop continentale.
Il risultato è qualcosa che assomiglia a un’audace ed estensiva rilettura del musical d’animazione per eccellenza dei nostri giorni, “Frozen”, con l’intento di allargarne portata e significati dal fiabesco puro alla favola densa di riferimenti alla realtà del mondo circostante con le sue speranze e i suoi malesseri. La traccia introduttiva Incantata dal cielo espone bene quest’attitudine. Ad una prima parte danzante si alterna un bel largo finale a sorpresa, al cento della scena una voce che fluisce melodiosa ed estroversa come nelle grandi cavalcate del genere disneyano.
Umore che si sviluppa e si carica ulteriormente in una Camera dei strafanici costruita su un efficace blitz di formule, riferimenti magici e archi esuberanti.
E del contemporaneo dream pop cosa è dato trovare in questo disco? Senz’altro il gusto per la contaminazione tra stili e l’assemblaggio di due o più tracce vocali alla maniera algoritmica di una Imogen Heap come è possibile ascoltare in Homeless e nella title track Serena più che mai.
Ma lo sfondo ricorrente è piuttosto incentrato sulla continua definizione di umori, ragioni e sentimenti del vivere di una protagonista così vicina a quella di una eroina anomala di questi tempi. Il combo La ballerina azzurra / Le cirque des animaux ne da un ampio e disincantato saggio. Alla malinconia della prima si salda il sorriso amaro della seconda, l’impianto musicale alterna puro impatto emozionale a fasi di rigore misurato e senza fronzoli.
Nel contesto descritto Sospesi qui è quasi un attimo di relax che intinge l’umore dominante in scampoli di jazz, in attesa di un finale torna a toccare corde profonde e nervi scoperti. La musicalissima apoteosi di Sorriso e il senso di attesa di Divenire hanno la forza intima della speranza vissuta ma la Finatti ribalta il tutto con Bes di Diu (“Dio Denaro”), sorta di post scriptum infilato come un avvertimento a caldo. Unico brano in dialetto friulano – ripasso della musica cruda, ancestrale e del canto sanguigno condotta alla maniera dei Deja – funge da estrema esortazione con una voce che si fa vibrante e ruvida su un testo che sembra pescare un po’dai moniti evangelici un po’ da Pasolini.
Un’esortazione che facendo da pendant all’iniziale Homeless racchiude un segno di questi nostri tempi di sicurezze destinate a sgretolarsi sotto i colpi di una realtà che non si cura di collaudati e ormai sterili schemi.