Al Teatro dell’Opera di Roma non si presenta il capolavoro di Berg dal 2007 quando dopo trent’anni venne proposto ‘fuori abbonamento’ e con poco pubblico in sala  (ma una buona esecuzione semiscenica è stata realizzata al Parco della Musica dall’Accademia di Santa Cecilia nel 2003). Ho ragione di pensare, sulla base di una ricerca fatta su internet, che Wozzeck manchi da diversi anni anche dall’Opera Nazionale di Bucarest, un bel teatro di medie dimensioni che ha raggiunto una buona qualità e la prossima stagione co-produrrà Traviata con il Teatro dell’Opera di Roma. 



Proprio quel Teatro dove nel 2007 è passato inosservato uno dei migliori allestimenti visti dell’opera di Alban  Berg in Italia negli ultimi anni. Gareggiava efficacemente con quello di Jürgen Flimm che verrà riproposto alla Scala in ottobre-novembre e con quelle (memorabile) di Claude d’Anna gustato al Massimo Bellini di Catania nel 1996.



Wozzeck  ha una tale forza polemica che non piace ai regimi autoritari. E’ utile ricordare che  ebbe la sua prima italiana al Teatro dell’Opera di Roma nel novembre 1942: dirigeva Tullio Serafin, era protagonista l’allora giovanissimo Tito Gobbi. Eravamo in guerra, alleati con i tedeschi, l’opera era vietata in Germania e in tutti i Paesi occupati perché ritenuta “degenerata” e proibita di fatto negli Stati Uniti perché considerata “un oltraggio al pudore” (arrivò al Metropolitan sono nel 1958). Non vogliamo fare facile retorica per dire come la messa in scena dell’opera a Roma nel 1942 volesse significare una presa di posizione “eretica”. 



Era soltanto il segno della grande attenzione che allora (anche a ragione della politica governativa, lo descrive bene il libro di Stefano Biguzzi “L’orchestra del Duce”, Utet 2003) riceveva la musica contemporanea. In effetti il capolavoro di Berg era inserito in una stagione dedicata alla musica allora da considerarsi contemporanea.

E’ da augurarsi che il Wozzeck proposto in versione di mise en éspace nella Sala Grande (4000 posti) del Palazzo dei Congressi di Bucarest preluda ad un ritorno di Wozzeck nel repertorio romeno. Mise en espace vuol dire che gli uomini erano in smoking (tranne il protagonista ed il capitano) e le donne in abito da sera. Ma sul boccascena, ed in un momento, anche in sala, non mancava la recitazione (e recitazione di alto livello). I 15 quadri della vicenda non sono divisi in tre atti ma costituiscono novanta minuti senza interruzione. Come se si svolgessero in una scena unica; il coro (e le danze) nel quadro dell’osteria (quarto del secondo atto), restano fuori scena; il lago viene lasciato alla nostra immaginazione. Allestimento “povero” ma non banale in quanto nel clima quasi claustrofobico si accentua la parabola di Wozzeck in quanto discesa all’inferno in 15 velocissimi quadri (ciascuno con una sua forma musicale puntuale): l’orgoglio del buon soldato viene umiliato dal Capitano (in una suite in 5 parti); vende (o più crudemente affitta) il proprio corpo perché sia oggetto di esperimenti da parte del Dottore (a tempo di passacaglia); la sua donna (Marie) si fa sedurre dal Tamburmaggiore (in un trascinante rondò); nel piccolo ambiente della caserma e dintorni lo sanno tutti, tranne il più diretto interessato che se ne accorge poco a poco (scherzo e trio); e così via sino all’assassinio di Marie da parte di Wozzeck (in si naturale) ed al suicidio (in cui ad un’invenzione su un accordo segue un’invenzione su una tonalità). 

La violenza della parabola viene, anche essa, accentuata dalla regia: ad esempio, le scene d’amore non sono erotiche ma violentemente (ed esplicitamente, per quanto consentito in un teatro d’opera) sessuali. Molto curata, in tutti gli aspetti, la recitazione. I novanta minuti vengono rappresentati senza interruzione al fine di non interrompere la tensione ma anzi farla crescere.

Veniamo alla parte musicale. Wozzeck rappresenta per Leo Hussain un’occasione importante: esce dal suo repertorio originale per affrontare una partitura impervia (la prima a Berlino nel 1925 venne preceduta da 137 prove d’orchestra) con grande organico ed orchestra, oltre che in buca, in scena. I risultati sono stati complessivamente buoni, anche se Hussain è stato eccessivamente lirico nelle parti liriche (ad esempio il finale) ed un po’ pesante in altri momenti (ad esempio, la scena degli esperimenti sadici del Dottore – quarto quadro del primo atto). L’orchestra del Teatro del Teatro Nazionale di Bucarest ha comunque dato una grande prova.

Michael Volle  è vocalmente perfetto nei panni del protagonista: sa scivolare abilmente dal melologo, allo sprechensang, agli ariosi e ai brevi ma intensi duetti con Marie. E’ un grande attore e con fisico adatto al ruolo del soldato costretto a nutrirsi solo di legumi (per gli esperimenti del Dottore) e, nell’accezione di questo allestimento, di una capacità sessuale chiaramente inferiore a quella del suo rivale Tamburmaggiore (Marius Vlad  Budoiu), interpretato  a tutto tondo (dalla voce all’azione scenica). La Marie di Evelyn Herlitzius  non è la povera donna di campagna che, delusa dal soldatino, cade nelle braccia del Tamburmaggiore, ma una Brunilde (uno dei ruoli per cui il soprano drammatico di New York è più noto) assetata di sesso sin dalla prima apparizione in scena; impeccabile sia vocalmente sia scenicamente. La Margret di  Maria Jinga è, nella concezione generale dell’allestimento, quasi una prostituta, dal canto volutamente un po’ sguaiato.

Nelle parti minori merita un economio Cosmin Ifrin, un tenore leggero, che impersona Anders con la scettica innocenza (uno dei paradossi di Berg) appropriata; tenerissimo il suo legato. Arnold Bezuyem e Martin Winkler sono l’arrogante Capitano ed il sadico Dottore; tenorino mellifluo il primo e basso di agilità il secondo – ambedue di buon livello. altri. Struggente l’”Hop, hop” finale.

Resta un quesito: perché utilizzare una sala da 4000 posti,peraltro con molte file vuote per un lavoro fondamentalmente intimista?