Che cosa fa una pietra quando non rotola? Non si lascia coprire di muschio se questa pietra si chiama Keith Richards. Si guarda dentro, riscopre quello che ha accumulato in una lunga vita, un amore grande così per la musica in tutta la sua interezza e ne fa un bel disco. Che è poco “rolling” e molto “stone” nel senso che Richards a differenza di Jagger è ben fisso sulle radici della musica. Come una pietra. Un po’ come Bob Dylan che ormai da molti anni vive in un mondo antico e fa musica che appartiene all’era pre rock’n’roll: il blues, il jazz, il folk, il country precedenti alla rivoluzione di Elvis. Che poi sono la cifra stessa che costituisce il rock’n’roll.
Anche il chitarrista degli Stones nel suo nuovo disco solista, “Crosseyed Heart”, a ventitré anni di distanza dal precedente (con questo tre in tutto nella sua carriera) percorre queste strade, tanto che l’unico vero pezzo che ha il sapore e l’eccitazione della sua band appare solo a un certo punto, Trouble, anche se gli indizi qua e là non mancano. Un disco raffinato, cantato con un cuore (strabico, perché è un cuore che si è giocato tutto nella vita) purissimo, dove emerge tutta l’onestà di un artista che ha dedicato ogni attimo dell’esistenza a qualcosa di più grande di lui, la musica. Canta Bene in questo disco, Keith Richards, stupendo visto che non è mai stato un cantante vero e proprio, certo non all’altezza dell’amico/nemico Jagger, ma questo lo sanno tutti. In “Crosseyed Heart” supera se stesso declinando la voce come un vecchio crooner pieno di affetto e sincerità.
I brani di Richards solista, come già ci avevano mostrato i due dischi precedenti, sono un po’ pezzi degli Stones prima della lavorazione di Mick Jagger. Scarni, essenziali, tenuti su da riff squadrati e implacabili. Jagger poi li colora e li fa diventare quella festa grande che sappiamo. Ma in “Crosseyed Heart” Keef va oltre e incide una serie di brani che portano lontano, perfetti per un noir di Raymond Chandler. E’ un viaggio alle radici, compiuto quasi tutto di notte, tra ricordi, fantasmi e promesse infrante.
La decisione di incidere un pezzo antico come la storia dell’uomo, Goodnight Irene (il classico del bluesman Leadbelly risale al 1933), è indicativa di tutto questo. La voce rotta del vecchio pirata che canta questa tenera ninna nanna, in realtà l’incubo di un carcerato che sogna oltre le sbarre della sua cella, dicono tutto quello che c’è da dire a proposito di cosa significhi questo disco per il suo autore.
Disco che presenta anche brani enigmatici come Amnesia, caotico, volutamente spiazzante. Non è una canzone vera e propria, è un intreccio di riff, è come aprire le vene di Richards e vedere cosa ci scorre dentro: non sangue, ma groove. L’assolo di chitarra è pastoso, denso, pieno di soul e del fango del Mississippi. C’è spazio anche per il vecchio amico scomparso un anno fa, Bobby Keys, con uno dei suoi assoli di sax così caratteristici.
Blues in the Morning tiene dentro Willie Dixon e Muddy Waters, il Chicago blues nella sua interezza e nella sua fierezza con una sezione fiati che detta le coordinate. La registrazione è vintage, l’effetto è quello di aprire di schianto una porta di uno scantinato nel North Side di Chicago negli anni 40. Quello che ci aspetta là dentro è mistero, morte e chissà che altro. Chi ha coraggio vada dietro a Richards.
Più ci si immerge in questo disco scuro e limaccioso come le acque del Mississippi in piena, più si scoprono indicazioni: country, spiritual, atmosfere cajun, rock dal sapore voodoo e anche stradaiolo. Tutto sottinteso, ben dissimulato, come indizi sparsi qua e là a tracciare una mappa dalle coordinate note solo all’autore di queste canzoni.
La title track ad esempio è tutto quello che Mick Jagger non gli lascia fare negli Stones, un ipnotico giro blues di chitarra acustica. Adesso siamo sulle tracce di Robert Johnson in un juke joint lungo la highway 61.
Heartstopper è un classico brano Stones a cui manca solo la voce di Jagger, ma quella di Richards dà tinte noir che altrimenti mancherebbero. Illusion invece è musica soul, siamo arrivati a New Orleans con raffinatezze melodiche che solo Richards sa dare ai suoi pezzi. C’è anche la cantante Norah Jones ma solo nel finale come se quella presenza illusoria invocata si materializzasse davvero alla fine: “How could I resist a kiss that doesn’t exist?”
Love Overdue pezzo di Gregory Isaacs, ci porta sulle spiagge dei Caraibi, un reggae che non poteva mancare visto l’amore che lega il musicista inglese alla Giamaica e alla sua cultura. Non è il reggae moderno, quei fiati ci portano allo ska degli anni 50 indietro nel tempo, a quell’R&B che i giamaicani sentivano alle radio captate con difficoltà dagli Usa. Ci aggiunsero un ritmo a levare e inventarono qualcosa di inedito, che Richards dimostra di saper maneggiare con cura.
Lover’s Plea è un robusto R&B retto ancora da una potente sezione fiati mentre Richards tira fuori la sua migliore imitazione dei cantanti soul anni 50 e 60, dolcezza e tenerezza profuse a piene mani. In Robbed Blindsi sente la voce di Richards che sussurra, ironica, “rock’n’roll” poi invece parte una ballata country acustica giocata in duetto con un pianoforte declamatorio e una pedal stele che spande malinconia a dosi massicce. Con Gram Parsons nel cuore .Vale la pena citare ancora Substantial Damage, un garage rock sgangherato e pericoloso, minaccioso e sanguinante, come se Tom Waits e Keith Richards fossero insieme a delirare, e Nothing on Me, rock robusto ed essenziale, una dichiarazione di intenti e di indipendenza con la voce più cattiva e scazzata che mai: “No, they got nothing on me. They watch me like a hawk me, they even take me for a walk, they wait for me to squawk, but they got nothing on me”. Pensate di conoscermi, ma non avete la più pallida idea di chio sia veramente, lascia intendere con disprezzo.
“Crosseyed Heart” è Keith Richards al profondo della sua essenza, umana e artistica, il cuore strabico di un uomo che ama la vita e così facendo diventa anche l’anima e il cuore di una storia infinita, quella del rock’n’roll.