L’ultimo treno parte a mezzanotte e cinquanta. A quell’ora in stazione ci sono poche persone, qualcuno che sogna e qualcuno che piange. Sopra i binari una malinconia senza nome e senza preghiere. Da venticinque anni prendo l’ultimo treno della sera, da quando in un mattino d’autunno un’erba maligna mi tolse dal cuore l’unico amore che avevo. Il mio inverno è cominciato così, esattamente venticinque anni fa.



C’è sempre un vecchio che viaggia con me, lo incontro tutte le notti. Se ci sono io c’è anche lui, seduto nello stesso scompartimento, di fronte a me. Guarda la notte che scorre dal finestrino, come se aspettasse che da un momento all’altro che le stelle cominciassero a spegnersi e riaccendersi tutte insieme. Lui quel treno lo prende da cinquant’anni, da quando in un mattino d’autunno una nube maligna gli tolse dal cuore l’unico amore che aveva. Da allora passa le sere in un pub, appena fuori dalla stazione. Ha scritto una ninnananna per gli ubriachi,  e al ritornello dice così: “Che tu possa arrivare in Paradiso mezz’ora prima che il diavolo sappia che sei morto”. E’ un augurio, una benedizione, una ninnananna di cinquant’anni fa. 



La canta anche a me, mentre corre il treno e dal finestrino ogni luce è una scintilla, un altro viaggio, un’altra notte di ricordi e racconti lontani. “Sono cinquant’anni che offro a Dio questo dolore – dice il vecchio – ma il mio amore non è mai tornato. Qui c’era poca gente cinquant’anni fa e una radio che suonava da lontano. Avevo la tua stessa età allora e adesso che mi giro a guardarla, questa vita mi sembra solo un sogno fatto tanto tempo fa”.

Scendiamo alla stessa stazione e io lo prendo sempre per un braccio. Tutti e due abbiamo una sacca di cuoio, identica,  e una notte per sbaglio ce la siamo scambiata. Quella notte lui aveva una luce buona e calma negli occhi e mi ha detto: “Ho visto il mondo cambiare e l’oro del mattino alla finestra, ho sentito il vento passare sopra al fieno e il profumo delle rose in estate. Ma adesso il vento si è fermato, le foglie sono ingiallite e i petali caduti, e io già so tutto quello che vedranno i miei occhi.  Adesso spero solo di arrivare in Paradiso, mezz’ora prima che il diavolo sappia che sono morto”.



E’ stato allora che ci siamo separati, ma non di tanto. Viviamo nella stessa strada. “Ci vediamo domani” – ho detto – e lui: “Si, ci vediamo domani”. Ho aspettato che si chiudesse la porta alle spalle. Poi sono entrato anch’io in casa, ho acceso la luce e aperto la mia sacca di cuoio. Dentro c’erano le cose di sempre, quelle che porto con me da venticinque anni avvolte in un giornale di allora: un vecchio disco dei Quicksilver Messenger Service che mi ricorda di viaggiare felice e una copia dell’Antologia di Spoon River segnata alla pagina che parla di un tale, George Gray (*), sulla cui lapide hanno scolpito una barca con le vele ammainate in un porto. Quella di George Gray è la storia di un grande rimpianto e talvolta, quando ci penso, a me sembra la storia di quasi tutti.

Guardando la data del giornale, mentre svuotavo la borsa, mi sono accorto che qualcosa quella sera era cambiata. Il giorno era lo stesso, identico a quello del mio primo viaggio, ma la data era di cinquant’anni prima. “La sacca!” – ho esclamato – “ho preso quella sbagliata”. Allora sono uscito e ho suonato alla casa del vecchio. La luce era già spenta. Ho guardato dalle finestre – il vecchio viveva senza tende – ma in casa non c’era nessuno. E’ stato allora che ho visto sulla soglia un disco e un libro: l’Antologia di Spoon River, segnata alla pagina di George Gray,  e un vecchio album dei Quicksilver Messenger Service: “Happy Trails”. “Viaggia felice”. C’era scritto proprio così. Ho aspettato che quel vecchio tornasse. L’ho aspettato per altri venticinque anni, ma non l’ho più visto. Poi, venticinque anni dopo, sono andato via anch’io. Siamo morti lo stesso giorno, io e lui, e avevamo lo stesso nome: George Gray. 

(*) GEORGE GRAY

Molte volte ho studiato

la lapide che mi hanno scolpito:

una barca con vele ammainate, in un porto.

In realtà non è questa la mia destinazione

ma la mia vita.

Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;

l’ambizione mi chiamò, e io temetti gli imprevisti.

Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

E adesso so che bisogna alzare le vele

e prendere i venti del destino,

dovunque spingano la barca.

Dare un senso alla vita può condurre a follia

ma una vita senza senso è la tortura

dell’inquietudine e del vano desiderio-

è una barca che anela al mare eppure lo teme.

 

(Edgar Lee Masters)