Quando si ha alle spalle una storia artistica come quella di David Gilmour, è assai difficile che un album passi inosservato. Diventa impossibile, poi, se  appena un anno fa il chitarrista inglese aveva dato alle stampe un album firmato Pink Floyd, con cui aveva decretato la parola fine in maniera definitiva alla storia di un gruppo così terribilmente importante, Un tappeto fatto di sogni, con un’ideale barca traghettata verso l’infinito, un luogo dove la storia e il mito coincidono, e il ricordo diventa leggenda. 



Brani quasi tutti strumentali, frutto delle sessioni dell’ultimo album del 1994, quel “Division Bell” che aveva regalato gli ultimi sprazzi della creatività di un gruppo che oramai portava a spasso la propria epopea con tanto mestiere e poco di più. Tutto sommato una sorta di ripescaggio di materiale lasciato da parte all’epoca, e restituito all’ascolto dei contemporanei, con una dedica particolare all’amico Richard Wrigth, deceduto nel 2008, compagno di avventure in sala di registrazione e in tanti tour. Quasi mezzo secolo di carriera condivisa nei Floyd. 



Cosa furono i Pink Floyd senza Roger Waters, dal 1982 fino allo scioglimento della band è presto detto: provate ad immaginare una reunion dei Beatles negli anni ottanta senza John Lennon. 

David Gilmour ebbe il coraggio di portare avanti le vicende di una band che aveva segnato in maniera indelebile la storia musicale e culturale del rock degli anni settanta. Lo fece con il gusto, la classe e la raffinatezza che il suono della sua chitarra regalava ad ogni brano composto, nel solco di una musica rock che non regalava più novità, ma ancora qualche canzone figlia della bravura del musicista. Non poteva comparire quel colpo d’ala, quello “delirio” demiurgico che solo la genialità di Waters sapeva imprimere agli album dei Floyd. Eppure, col tempo, anche negli anni settanta il sound dei Pink Floyd aveva virato con crescente decisione verso il rock, lasciandosi alle spalle, dopo la sperimentazione di “Ummagumma” e gli approcci progressive di “Atom Heart Mother”, ogni tipo di esplorazione sonora, concentrandosi sull’aspetto della creatività compositiva, celebrando fra il 1971 e il 1973 il periodo di maggiore vena artistica del complesso. 



Da quegli anni vedranno la luce i brani di “The dark Side Of The Moon” e lo stesso “Wish You Were Here”, come testimoniano tanti bootleg registrati durante i tour di quegli anni irripetibili. David Gilmour aveva saputo caratterizzare il suono dei Pink Floyd con precisione e metodica ispirazione. I suoi immortali assoli di chitarra avevano deliziato generazioni di ascoltatori, da “The Dark Side Of The Moon” fino a “The Wall”, ovvero l’epoca del grandissimo successo planetario della band.

“Rattle That Lock”, l’ultima fatica del chitarrista inglese, esprime dal titolo una sorta di distacco. Un rumore di una serratura che chiude una porta che guarda al passato, e , forse, ne riapre una rivolta al futuro. Il brano che apre l’album si chiama “Five A.M”, e quel cinguettio che udiamo non può che mandare in cortocircuito la nostra memoria all’incipit di “More”, album del 1969, colonna sonora dell’omonimo film.

 La chitarra sale subito in cattedra, regalandoci un repentino assolo che si staglia in un cielo disegnato dalle tastiere, una sorta di alba sonora del disco. Ed è il suono di una stazione ferroviaria, precisamente il segnale sonoro che precede l’annuncio dei treni in partenza e in arrivo, che ha ispirato la title track dell’album. È lo stesso Gilmour a raccontarlo, rivelando di avere registrato col proprio iPhone le note direttamente dall’altoparlante di una stazione francese, durante una sua permanenza parigina.  Il testo è scritto dalla moglie Polly Sampson, ispirato direttamente da “Paradise Lost” di John Milton. In esso si esalta il senso del diritto alla ribellione contro ogni tirannia,  “Rattle that lock and loose that chains”. La canzone è il brano più immediato di tutto il disco, molto orecchiabile, dai ritmi quasi dance.  
Unico brano comunque ad ammiccare in maniera sorniona al grande pubblico, quasi un voluto contrasto fra l’importanza del contenuto e il suo commento musicale. Il video in particolare è ricco di citazioni bibliche: un cartone animato in bianco e nero che sembra dare vita agli incubi di William Blake filtrati attraverso l’arte di Gustavo Dorè. Di diversa atmosfera la canzone che segue, introdotta dalle note gravi ed evocative di un pianoforte, che via via si stemperano accompagnate dal suono di un organo, preludio dell’ingresso della chitarra acustica di Gilmour. “Face Of Stones” si nutre di una melodia dai toni quasi nostalgici, illuminata da un assolo di chitarra elettrica, quasi come un raggio di sole che rompe il buio della memoria. Una ballata in bilico fra passato e futuro,  con un accenno di speranza finale, un futuro che viene tenuto stretto dentro al cuore. Uno dei brani migliori di questo album, secondo il mio punto di vista. 

Le atmosfere si fanno sempre più rarefatte col brano seguente, “A Boat Lies Waiting”, delicati fraseggi di chitarra accompagnati dal pianoforte, una canzone che parla di attesa e di eternità. Un’eternità che passa accanto a tutti noi quando la morte bussa alle porte. La successiva ballata ricorda passati episodi dei Pink Floyd. Il riff di chitarra, i cori di sottofondo, le note gravi del basso, accompagnano una canzone rilassata, un invito alla vita, quasi a far da contrasto col brano che l’ha preceduta. Un pianoforte si introduce alla metà della canzone. “Dancing In Front Of Me” è una canzone tipicamente floydiana. 

“In Any Tongue” è una ballata molto bella. A tratti ricorda la drammaticità di “Comfortably Numb”. Una delle gemme di questo album, sicuramente. 

“Beauty” è un gioiellino. Un brano strumentale, tutto giocato, inizialmente, sulla chitarra e le tastiere che disegnano un cielo oscuro. Poi la batteria e la chitarra elettrica si impegnano in una sorta di duetto che accompagna l’ascoltatore fino alla fine del brano, come un elegante interludio.

“The Girl In The Yellow Dress” è un brano blues dalle movenze tipicamente jazz. Il video è un cartone animato, molto bello, che richiama le atmosfere di un club degli anni cinquanta. Un brano quasi retrò, che si fa apprezzare dal primo ascolto.

“Today” inizia con coro soffuso di voci notturne, per poi aprirsi improvvisamente in una ballata elettrica. Estremamente orecchiabile e dal ritmo sincopato, con la chitarra che come sempre disegna assoli qua e là, il tutto misurato e molto calibrato. Il finale viene servito con un altro brano strumentale. 

“And Then..” vede la chitarra di Gilmour spadroneggiare, irrorando con le sue note una composizione dai toni sereni, quasi rassicuranti. Quasi un quadretto crepuscolare, dove la luce adagio adagio si stempera in un tramonto. 

Definire questo album con un semplice aggettivo? Elegante.

Un album realizzato con cura, grande meticolosità, che contiene alcuni episodi di rilievo, in un contesto sicuramente assai godibile. Piacerà ai fan dei Pink Floyd, sicuramente. Gli altri potranno goderne le atmosfere musicalmente assai seducenti.

Avvertenza: non cercate chissà quali novità. Non le troverete.

David Gilmour oggi è un raffinato cantautore. Capace ancora di scrivere belle canzoni. E questo, alla soglia dei settant’anni, non è poco.