Sufjan Stevens, di cui si è parlato anche sul sussidiario.net all’uscita dell’album Carrie and Lowell, ha suonato il 21 settembre scorso al Teatro della Luna a Milano nell’ambito del suo tour europeo dedicato al suo ultimo lavoro. L’artista ha presentato nel corso del concerto “Carrie and Lowell” nella sua interezza. Undici canzoni che riguardano la storia della sua famiglia e in particolare di sua madre. Morta nel 2012, con lei ebbe un rapporto travagliato per via di problemi legati alla droga e al disturbo bipolare della stessa.



Il tema non è certo dei più leggeri: l’ultimo album è infatti una sequenza di canzoni spoglie ed essenziali che meritano di essere ascoltate con attenzione dall’inizio alla fine. Sufjan Stevens è di certo un personaggio controverso e in continua ricerca. Cristiano ma senza un luogo di riferimento ben preciso, ha vagato sia fisicamente che musicalmente tra le varie tradizioni degli States affrontandone le varie stagioni musicali senza sosta. Musicista tanto colto per preparazione quanto limitato per estensione vocale, mostra in questo concerto quanto l’approccio usato sia distante anni luce dai talenti vocali che puntano a conquistarci nel giro di pochi secondi. Il limite della voce viene qui utilizzato come strumento anche involontariamente, quando apre con voce tremate la prima strofa cantata della serata per esprimere qualcosa che va oltre.



E’ una serata di una tensione palpabile, subito fin dalla delicata introduzione con lo strumentale Redford tratto dall’album Michigan. Con lui sul palco James McAlister, Ben Lanz, Casey Foubert e Dawn Landes. L’atmosfera diventa solenne.

L’esecuzione dell’album scorre senza sosta e senza interruzioni da parte di Mr. Stevens, con le canzoni che si fondono una dentro l’altra suonate in maniera impeccabile quanto sincera. In certi istanti la poetica è vicina a Nick Drake (penso in particolare a certi episodi dell’album Pink Moon). “I forgive you mother but I long to be near you” canta nel secondo pezzo Death with Dignity e in Blue Bucket of Gold che è l’ultimo brano della prima parte del concerto un lungo strumentale fa da coda portandoci in un luogo sospeso e sognante.



Dichiara Sufjan in un intervista “Non conoscevo mia madre sotto molti punti di vista e non sapevo come dirle addio nell’ultimo brano. Così ho smesso di suonare il piano e di cantare. Mi volevo arrendere davanti a lei con suoni che fossero più grandi me…”. In un certo senso questo senso di resa è stato evidente sia per il pubblico che per i musicisti. Quando c’è una storia da raccontare, chi suona è come costretto a fare un passo indietro e a restare sia fisicamente che musicalmente nell’ombra per dare la possibilità alla canzone stessa di emergere.

Al termine di questa prima parte Sufjan dichiara: “Scusate se stasera ho suonato solo canzoni tristi. Vi devo dire che portare in concerto queste canzoni dolorose per me e condividerle con il pubblico sera dopo sera è stato qualcosa di positivo. Stasera siamo qui a celebrare la vita e quello che c’è ora, i nostri cuori che battono.”

Dopo una breve pausa torna sul palco questa volta per eseguire cinque brani registrati nel passato che sembrano non attaccati in maniera posticcia come bis, ma semplicemente sono un altro aspetto della sua storia. Porto a casa due lezioni da questo timido musicista. La prima è che è possibile un superamento dei generi. È possibile usare elementi diversissimi della storia musicale recente e farli convivere in una bellezza armoniosa come è accaduto stasera grazie anche alla band che supporta l’artista.  La seconda e più decisiva, è che la musica può essere ancora importante, e non un sottofondo o una playlist da scorrere senza sosta. Il dramma della vita che affiora in alcune grandi canzoni non passerà certo per radio o nei talent. Ha bisogno di uno spazio delicato e dedicato, esclusivo, cui mettersi davanti dando tutta l’attenzione. Come quando leggi una poesia, o dici ad una persona che le vuoi bene. Non puoi farlo in mezzo a tutto il resto. 

Sono sicuro che sentiremo ancora parlare di Sufjan, in chissà quale nuova avventura musicale.

 

(Marco Chrappan-Soldavini)